Der Arbeiter 4.0. L’Italia e la riscoperta della “funzione sociale” della proprietà

Dire “funzione sociale” non significa allora trincerarsi dietro uno slogan ad effetto, ma andare al cuore della crisi attuale

Proprietà privata

Nel  Codice francese del 1804, che, per decenni, ha fatto scuola in tutta Europa,   la proprietà veniva definita come “il diritto di godere e di disporre delle cose nella maniera più assoluta”. 

Da allora molta acqua è passata  sotto i ponti  delle Déclarations des droits  non solo in tema di proprietà: al punto che sia dottrina che gli indirizzi legislativi sono ormai andati ben oltre l’”assolutismo” in materia. 

Ci ha pensato  il solidarismo mazziniano, la dottrina sociale della Chiesa, la cultura nazional-partecipativa. Sta scritto nel codice civile del 1942, che, all’ art. 832, riconosce al proprietario “il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo entro i limiti e con l’osservazione degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giudirico”. Ed è “programmaticamente” fissato dalla Costituzione del 1948, che, all’art. 42, dichiara: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.

Ecco il dunque: “funzione sociale”. Da lì partono  una serie di conseguenze economico-sociali e politico-culturali da cui non si può derogare. 

Riconoscere la funzione sociale della proprietà significa  superare  finalmente certi “assoluti”, tipici del radicalismo liberista,  secondo cui “un’azienda privata può fare quello che vuole”, dando alla proprietà ruoli e compiti di portata generale. 

Vuole dire comprendere che esistono degli interessi nazionali  a cui la singola azienda non può derogare, nella misura in cui la sua esistenza è fondata non solo sul diritto del proprietario, ma sul lavoro dei suoi dipendenti, sul contesto sociale in cui opera, sul senso di un’appartenenza storica e dunque sui contributi, materiali e spirituali, della comunità d’appartenenza.

Vuole dire operare in ragione del contemperamento degli interessi in campo, evitando di rinchiudersi nella mera difesa del “ diritto di godere e di disporre delle cose nella maniera più assoluta”, con i risultati che, oggi, sono bene evidenti a tutti: esasperate delocalizzazioni, cesura tra economia reale ed  economia finanziaria, conseguente finanziarizzazione delle imprese industriali, perdita del valore del lavoro e della centralità del lavoratore.

Dire “funzione sociale” non significa allora trincerarsi dietro uno slogan ad effetto, ma andare al cuore della crisi attuale, cercando di superarla veramente, richiamando ciascuno a fare il proprio dovere, senza perdere di vista la complessità della vita economica e sociale, la quale  non può evidentemente essere rinchiusa nell’atomismo individuale, nella mera difesa degli interessi materiali del singolo, nell’utile immediato, portato di una visione assoluta della proprietà. 

E’ certamente un problema culturale ed etico, ma non solo. E’ la capacità di guardare fuori dai ristretti ambiti aziendali, riacquisendo una visione “di sistema” , che perfino i maestri del liberismo economico non potevano negare, salvo poi delimitare la funzione dello Stato a quella di “cornice”, in quanto dispensatore di servizi e garante della sicurezza. Un po’ poco per  tempi di “passaggio” come l’attuale dove tutto va ripensato e riparametrato in ragione delle emergenze “di sistema”.

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Mario Bozzi Sentieri

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