Stoner e l’adrenalina di lavorare sul magma della letteratura

La recensione del romanzo dell'americano John Williams edito da Fazi

La copertina di “Stoner” per Fazi

“Te ne sei accorto, sì

che passi tutto il giorno a disegnare

quella barchetta ferma in mezzo al mare

e non ti butti mai […]” 

(La verità – Brunori Sas)

Stoner è questo. Billy vive la vita degli altri. Questo libro fu pubblicato in America nel 1965, senza riscuotere alcun successo. Banale, troppo triste, troppo lento, senza alcun colpo di scena. La situazione si ribalta letteralmente, in Europa, negli anni 2000, quando diventa un vero e proprio best seller, e John Williams viene premiato per esser riuscito a rendere vincente la storia ordinaria di un uomo ordinario. Perché? Difficile da spiegare. Tale successo continua a dividere i lettori, eppure è impossibile confutare l’abilità narrativa dell’autore. La tematica portante dell’opera, ricorrente in tutta la letteratura del ‘900, è l’inettitudine dell’uomo, ma con qualche dettaglio in più, che si può cogliere a pieno solo immergendosi totalmente nella lettura.

La trama del romanzo

John Williams

Siamo nei primi anni del secolo scorso in America: Stoner è figlio di contadini e si affranca dal suo destino di lavoro nei campi coltivando la sua passione per il mondo letterario e divenendo professore presso l’Università del Missouri. Sposa la ragazza che desidera, ha una figlia, ma il suo matrimonio si rivela un fallimento; incontra un’amante; ha due cari amici, uno dei quali però muore in gioventù; assiste (sempre marginalmente) a due guerre mondiali, al proibizionismo e alla caduta di Wall Street; si ammala e muore. Una vita normale, piuttosto monotona, costellata di pochi momenti felici e scialbe vicissitudini sentimentali e professionali. 

In tutta la storia ci sono forse solo tre momenti che danno una reale “scarica adrenalinica” all’esistenza di Stoner e alla curiosità del lettore: la sua decisione di voler studiare e diventare professore universitario perché folgorato dal mondo della letteratura. Questa si rivela l’unica scelta attiva di Stoner. Il protagonista, in questo caso, diviene emblema per eccellenza della devozione totale nei confronti del lavoro. Poi vi sono gli scontri lavorativi con il suo collega e superiore Lomax, il quale mette a dura prova la sua carriera accademica. Infine, l’incontro con una donna, della quale si innamora perdutamente e con la quale finalmente riesce a vivere quell’amore puro, passionale, che non aveva mai conosciuto neppure insieme ad Edith (sua moglie), ma che non sceglie, perché non ottempera alle consuetudini borghesi della società del tempo. Si potrebbe azzardare un paragone con il personaggio di Francesca, la protagonista de “I ponti di Madison County”, il capolavoro di Clint Eastwood, in bilico tra una scelta perbenista, rimanere vicino alla sua famiglia, e la passione: 

“Quello che io e Robert (l’amante n.d.r.) avevamo avuto non sarebbe potuto continuare se fossimo rimasti insieme, e quello che io e Richard (il marito n.d.r.) avevamo sarebbe svanito (una famiglia, i figli n.d.r.) se ci fossimo separati.”

Questo libro affascina per la sua ordinarietà: è una storia in cui ci si può identificare. Essa si incentra sulla ricerca della felicità, che caratterizza ogni uomo, nonostante l’incapacità del protagonista di vivere davvero, di scegliere davvero, di sentirsi libero per davvero. Anche questi ultimi sono elementi comuni a molti uomini. Ma il significato più potente dell’opera è la dichiarazione di amore assoluto per la letteratura, grazie alla lezione del professor Sloane sul Sonetto 73 di Shakespeare. Un vero colpo di fulmine.

“In me tu vedi quel periodo dell’anno

quando nessuna o poche foglie gialle ancor resistono

su quei rami che fremon contro il freddo,

nudi archi in rovina ove briosi cantarono gli uccelli.

In me tu vedi il crepuscolo di un giorno

che dopo il tramonto svanisce all’occidente

e a poco a poco viene inghiottito dalla notte buia,

ombra di quella vita che tutto confina in pace.

In me tu vedi lo svigorire di quel fuoco

che si estingue fra le ceneri della sua gioventù

come in un letto di morte su cui dovrà spirare,

consunto da ciò che fu il suo nutrimento.

Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si accresce

per farti meglio amare chi dovrai lasciare fra breve”

La citazione shakesperiana è interiorizzata da Stoner divenendo così stella polare della sua esistenza: imparare ad amare la vita. Quanto più abbiamo, tanto più dobbiamo amare. Ma Billy è inevitabilmente un inetto. Durante tutto l’arco della sua vita ama, e anche tanto. Ama il suo lavoro, sua figlia, la sua amante Katherine, forse anche sua moglie, insomma il suo mondo tutto, ma non sembra mai essere abbastanza, e il lettore, inevitabilmente, percepisce la sua inconcludenza. Solo in rare occasioni è possibile scorgere nel protagonista epifanie interiori che sembrano fargli superare quel muro di emozioni cristallizzate e mai realmente vissute. Il professor Sloane, all’inizio della storia, gli aveva rivolto parole importanti:

“Disse lentamente (il professore a Stoner n.d.r.): «Deve ricordare chi è e chi ha scelto di essere, e il significato di quello che sta facendo.»” (p. 46)

Si dice che non è mai troppo tardi, ma potrebbe esserlo, e forse per Stoner è stato così.

“Una specie di gioia lo colse (Stoner è in punto di morte n.d.r.), come portata dalla brezza estiva. Ormai ricordava a malapena di aver pensato al fallimento, come se avesse qualche importanza. Gli sembrava che quei pensieri fossero crudeli, ingiusti verso la sua vita. […] La coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso, e sapeva come era stato” (p. 321).

A volte può capitare che analizzare e raccontare un libro divenga più appagante che leggerlo.

Stoner

*Stoner di John Williams (pp. 380, euro 15, Fazi Editore)

 

Silvia Savini

Silvia Savini su Barbadillo.it

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