“Autobiografia del Rosso” di Anne Carson tra amore tango vulcano e carne

Il capolavoro della poetessa canadese rovescia il mito, narrato da Stesicoro, del mostro Gerione e di Ercole in un romanzo moderno potentemente simbolico. Ripubblicato da “La nave di Teseo” nella storica traduzione di Sergio Claudio Perroni.

Anne Carson

Rosso è il fuoco celato nel ventre gonfio della terra: il vulcano. Rossa è la rosa tra le labbra di due ballerini: il tango. Rosso è il colore dell’ira e della passione. Della seduzione. Può essere mostruosa la seduzione: un prodigio o uno spavento. L’amore: prodigio e spavento assieme. Rosso è il mitologico Gerione: ha tre teste rosse e due ali rosse, possiede buoi rossi nella terra rossa. Finisce con i crani vomitanti sangue rosso, fracassati da Ercole nella sua decima fatica: ed è spavento. Resta fisso tra la notte e l’immortalità davanti a un vulcano che vomita rossi lapilli infuocati: ed è prodigio. Gerione è un mostro e in sé il prodigio e lo spavento. Non per Stesicoro, poeta di Himera del 650 a.C. Non per Anne Carson, poetessa di Toronto oggi.

 

Per i due poeti distanti nel tempo, vicini nello “shake” come Carson chiama l’ispirazione, Gerione è un animo fragile, risucchiato all’interno di sé, straniero al fuori da sé.  Quando Stesicoro s’inventò le palinodie per riprendersi la vista dopo la punizione inflittagli da Elena, Euripide scrisse una delle tragedie più shakerate.  Quando Stesicoro scrive di Gerione massacrato da Ercole insieme al suo cagnolino rosso, quei suoi frammenti sono la prima shakerata al mito. Poi shakerare tocca ad Anne Carson e “Gerione si ritrovò dormiente, rovente, smaniante, sognante, grondante, dormiente”. L’anello di aggettivi è lo spectrum fotografico: da sonno a sonno Gerione è il positivo e il negativo impressi della medesima immagine. La stessa Anne Carson che recupera Stesicoro, in rivolta contro la fissità degli epiteti omerici, si fa spectrum del greco e capovolge il corpo rosso e le ali vergognose di Gerione, fotografandolo con una lingua aggettivale: labirintica, evocativa, lavica. Perché Gerione di Anne Carson esiste in quanto detto. E’ uno di quei personaggi impossibili da disegnare senza che la matita scarabocchi il bordo. Gerione è una fotografia in cui almeno un punto è sfocato o incongruo. Un ragazzino rovente e smaniante quando si affaccia al sesso (l’abuso del fratello) e all’amore (Eracle “una di quelle persone che non si saziano mai”), un giovane uomo sognante e grondante d’amore alla ricerca di oblio e di sé nel caos di Buenos Aires e nel silenzio epico del vulcano in Perù.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se Stesicoro ribalta la barbarie in purezza e la giustizia feroce in ferocia e basta, Anne Carson fa di Gerione un diverso: saffico (c’è l’eco della prima opera di Carson dedicata alla lirica erotica greca “Eros the Bittersweet”), freudiano (un libro di madri in cui Gerione e la madre “si guardavano da opposte sponde di luce”), sensuale per malinconia e smania, quando spazia tra gli spettri di Emily Dickinson e di Jorge Luis Borges. Forti le affinità di Gerione con la Dickinson: la vita in disparte e affamata di amore, la bulimia celata della scrittura  e il vulcano. Gerione è in questi versi di Emily Dickinson.

Una silenziosa – di Vulcano – Vita –
Che fluttuava nella notte –
Quando era buio abbastanza per fare
A meno della vista che cancella

Come c’è Stesicoro con la sua rapida cecità. Borges sta dentro il capitolo più cinematografico del romanzo, intitolato non a caso Tango. Gerione a ventidue anni vola in Argentina e una notte “dalle radici profonde” stretto nell’ampio soprabito che ne cela le ali e con la testa fasciata di Heiddeger, finisce al Caminito, un locale di tango. Si lascia avvitare dalle note dei musicisti, scansa lo gnomo che serve ai tavoli, viene risucchiato da un ricordo, chiacchiera con una donna di beluga, colpa e psicoanalisi, poi va via nell’eco di una frase “A chi può dar la colpa un mostro d’essere vermiglio?”.

Borges scriveva che nel tango “convivono tragedia, malinconia, ironia, amore, gelosia, ricordi, il barrio amato, la madre, pene e allegrie, odori di bordelli e di attaccabrighe”: la visita notturna al Caminito è anch’essa questa somma di cose. Se il tango è il vertice onirico del romanzo, il volo sopra il vulcano è il vertice lirico. Gerione acquista nella distensione del verso piano la sua natura aerea.

 …grida alla terra che rimpicciolisce laggiù.

Questo è un souvenir

della nostra bellezza. Guarda in basso

al cuore tellurico dell’Icchantikas che snocciola tutti i suoi fotoni

fuori dall’occhio antico

e sorride

all’obiettivo: L’unico segreto che la gente serba.

Dai vertici al pendio. Il pendio è allegoria del tempo: un’immagine rarefatta innestata dentro una trama di sentimenti forti, cruenti, deteriori in Eracle, puri per Gerione e Ancash, l’altro amante di Eracle. Anne Carson mette al centro della storia il rapporto difficile e impari tra Eracle, un personaggio caricaturale e da suburra, e Gerione. Lo declina tutto:  gelosia, abusi, bugie, tradimenti, desiderio. Ma l’amore è un pretesto narrativo. Se il mito sana l’incompiutezza umana, Anne Carson interprete moderna dei miti antichi, viola pure questo assunto, rovesciando il rapporto tra umano e divino: lo sconcerto rubizzo del mito trova compimento nel maturazione della sua umanità.

Eracle sogghigna nel buio. Ancash guarda le fiamme.

Noi siamo esseri stupefacenti,

sta pensando Gerione. Noi confiniamo col fuoco.

E adesso il tempo si precipita verso di loro

lì dove stanno ritti uno accanto all’altro con le braccia che si

sfiorano, immortalità sul volto,

notte alle spalle.

E’ un pretesto lo stesso recupero del mito. “Autobiografia del Rosso” affascina come affascina ogni reviviscenza di quelle storie fantastiche ed eterne. Ma affascina di più perché è un’indagine spietata sulla scrittura.  A partire dal titolo. Il romanzo si concentra su un’operazione di scrittura: come raccontare la propria vita fino ad annullare la parola nell’immagine, i fogli nelle fotografie. Ma non è resa della parola, è piuttosto ricerca dell’essenziale, tentativo di verità laddove regna l’inverosimile. Con una buona dose di quell’ironia, senza la quale non si dà luogo alla creatività e al senso del rovesciamento che attraversa il libro di Anne Carson. Incastonata tra un antefatto e un’intervista circolare, artificioso calembour narrativo, l’autobiografia di Gerione è il pretesto, appunto, per tracciare un sentiero allo scrittore: scardinare l’essere, liberare la tradizione dalla fissa cecità omerica e restituirla a quella malleabile di Stesicoro, colorare di rosso i soliti temi ( identità, memoria ed eternità, elenca Carson-Stesicoro) e duplicare Elena. Ne trarrà giovamento la materia di cui si nutre uno scrittore, la carne rossa come si legge nelle prime pagine del libro. Ne trarrà giovamento il respiro della scrittura.

A proposito di scrittura che respira. La bellezza della pagine di Anne Carson, la sua lingua così precisa e seducente è quella tradotta per noi da Sergio Claudio Perroni. Un libro tradotto da Perroni diventava (diventa) un libro di Perroni: nessuno come Perroni sapeva (sa) sviscerare le possibilità di una lingua. Un libro tradotto da Perroni è un libro gemellare. “Autobiografia del Rosso” è un libro che Perroni avrebbe potuto scrivere già prima di “Nel ventre” in cui ha dato la sua preziosa shakerata al mito della presa di Troia. Un libro che Perroni ha scritto: qui la carne rossa è di Stesicoro, di Anne Carson e sua.

Daniela Sessa

Daniela Sessa su Barbadillo.it

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