Giornale di Bordo. Bivio Draghi per le destre italiane

Cosa aspettarsi dall'Uomo del Britannia: una scialuppa di salvataggio o la zattera della Medusa?

Mario Draghi trasformato in una icona pop

Seguo senza l’empatia con cui un tempo mi accostavo alle vicende della politica italiana il dibattito che accompagna la gestazione del governo Draghi. Incline come sono, più per il disgusto del presente che per apprezzamento del passato, a esaminare l’odierno scenario della politica in una prospettiva storica, non posso fare a meno di tracciare un sia pur imperfetto parallelo con le vicende che, un quarto di secolo fa, accompagnarono la nascita e la caduta del governo Dini, nonché le successive elezioni.

Lamberto Dini

Tale governo, com’è noto, era nato nel 1995 da un “ribaltone”. Perito tecnico industriale laureato in economia e divenuto direttore generale della Banca d’Italia, Lamberto Dini era stato ministro del Tesoro del primo governo Berlusconi. Dopo il “ribaltone”, dovuto alla scelta di Bossi di ritirare il sostegno alla maggioranza uscita dalle elezioni del ‘94, aveva ricevuto l’incarico dal presidente della Repubblica Scalfaro di formare un ministero tecnico, che sarebbe dovuto servire da governo di transizione in vista di nuove elezioni politiche. In un primo tempo il centrodestra aveva accettato e, insieme a ministri strettamente tecnici (c’era persino un generale alla Difesa, caso senza precedenti nell’Italia repubblicana), aveva nominato ministri “d’area”, come per esempio Gaetano Rasi, economista di vaglia nonché fondatore dell’Istituto di Studi Corporativi, in quota Alleanza Nazionale. Ma emersero subito evidenti incompatibilità e il centrodestra tolse l’appoggio al governo; Rasi, da quel galantuomo che era, si dimise dopo essere stato “ministro per un giorno” (lo stesso fece, ma un po’ più tardi, Franco Frattini, in quota Forza Italia). Il governo tecnico divenne di fatto un governo politico, appoggiato da un’ibrida alleanza che comprendeva il centrosinistra e la Lega.

Per tutta la durata del governo il centrodestra invocò le elezioni anticipate, senza per altro ottenerle, nella convinzione che l’elettorato avrebbe punito il “tradimento” di Bossi. Ma la realtà smentì quelle speranze. Già i risultati delle regionali del 1995 furono deludenti. Nel 1996, caduta l’ipotesi di un governo Maccanico, soprattutto per la (comprensibile) opposizione di Gianfranco Fini, si andò davvero alle elezioni; ma, anche per la mancata desistenza con il movimento sociale-FT di Rauti e per alcuni scandaletti erotico-politici montati ad arte per l’occasione, il centrodestra, che si presentò ovviamente diviso dalla Lega di Bossi, uscì sconfitto, sia pure di misura, dalle urne.

La situazione odierna presenta alcune evidenti analogie, insieme a lampanti difformità. Il governo Conte è uscito da un “ribaltone”, ma in questo caso a infrangere l’alleanza è stato il partner di destra (sempre la Lega, certo, ma una Lega molto diversa da quella di Bossi che non perdeva occasione per inveire contro la “porcilaia fascista”). Per tutta la sua durata il centrodestra non ha perduto occasione per invocare le elezioni anticipate, ma i risultati nelle ultime elezioni regionali sono stati inferiori alle aspettative e il calo nei sondaggi della Lega è compensato solo in parte dalla crescita di Fratelli d’Italia. In più, a differenza che nel ’96, quando “l’asse” fra Fini e Berlusconi pareva inossidabile, oggi il centrodestra è obiettivamente diviso, con una pattuglia di deputati di Forza Italia che sopporta sempre meno l’alleanza con i “sovranisti”. È da notare inoltre che nel 1996 il centrodestra esercitava un richiamo sui giovani molto maggiore di oggi (ebbi modo di riscontrarlo anche con la mia esperienza didattica, e potrei citare qualche gustoso aneddoto al riguardo); lo dimostrò la percentuale più alta di suffragi ottenuta alla Camera che al Senato.

Qualche considerazione merita inoltre la qualità dei leader. Dini era sì un tecnico, ma si era già compromesso con la politica entrando nel primo ministero Berlusconi: lo si sarebbe potuto etichettare, Marcel Prevost permettendo, come una demi-vierge. Su Conte è preferibile stendere un pietoso velo di silenzio. Draghi è una figura “vergine” politicamente, ma non sul terreno del percorso professionale, in parte docente universitario, in parte altissimo dirigente pubblico, in parte dirigente di potentissime banche d’affari, infine ai vertici della Banca d’Italia e della Bce. Sono in molti, a destra e non solo, a ricordarlo come “l’uomo del Britannia”. Occorre riconoscere però che, come presidente dal 2011 al 2019 della Banca Centrale Europea, ha contribuito ad affrontare la crisi del debito sovrano con criteri che non si sono rivelati penalizzanti per l’Italia.

Il Draghi del futuro

Più che per quello che è stato, Draghi dunque andrebbe giudicato per quello che vorrà e soprattutto potrà fare. E anche per la misura in cui sarà disposto a condividere le scelte di governo con i partiti che lo sosterranno. Salvini ha osservato giustamente di essere disposto alla collaborazione con un eventuale gabinetto Draghi, anche con la partecipazione di ministri leghisti, ponendo però il veto su scelte giudicate – non a torto –esiziali per il Paese, come l’istituzione di un’imposta patrimoniale. Ed è corretto anche il suo riferimento al dopoguerra, quando nei governi di unità nazionale erano rappresentati tutti i partiti, perché era necessario fronteggiare una situazione d’emergenza, almeno pari a quella di oggi. Non è tanto una questione di “patriottismo”, quanto di semplice buon senso: chi sostiene un governo, è giusto che ne faccia parte con propri ministri e sottosegretari, se non altro per controllarne l’operato, soprattutto in una fase d’emergenza che vede i diritti costituzionali oggetto di pesanti limitazioni. Se quella col Covid è una guerra, come si ripete non senza una certa enfasi, è giusto che ad affrontarla sia un gabinetto di unità nazionale.

È anche discutibile che la linea dell’intransigenza propugnata da Fratelli d’Italia possa davvero risultare pagante in termini elettorali. Domandare a piè sospinto le elezioni, ben sapendo che il presidente Mattarella non è disposto a concederle, può ribadire nelle proprie convinzioni chi è già convinto, ma può stancare un’opinione pubblica che oggi chiede un governo in grado di affrontare l’emergenza. Meglio sarebbe stato, nell’ultima crisi, porre l’enfasi sull’irresponsabilità di Renzi e le contraddizioni di un’ibrida maggioranza piuttosto che sulla richiesta di voto anticipato.

Quanto alla reale possibilità che l’uomo Draghi sia il più adatto a rappresentare l’Italia in una congiuntura critica come l’odierna, le opinioni possono essere le più diverse. C’è chi un po’ melodrammaticamente scorge in lui, per la sua prossimità con i grandi potentati finanziari internazionali,  l’uomo della Trojka, pronto a fare dell’Italia una nuova Grecia; ma non è forse da escludere che, per gli stessi motivi, egli possa rivelarsi il politico in grado di fare da scudo fra un’Europa che non ci vuol bene, dei mercati finanziari instabili e il nostro Paese alle prese con una crisi economica (e non solo) senza precedenti dagli anni Settanta.

JEAN LOUIS THÉODORE GÉRICAULT – La Balsa de la Medusa (Museo del Louvre, 1818-19)

Questo non toglie che le scelte per tutto il centrodestra, a parte una Forza Italia ormai sempre più “brunettizzata”, saranno problematiche e dolorose: “Italy crisis leaves Salvini with difficult decision” titolava venerdì il “Financial Times”. E le difficoltà non sono solo della Lega, ma dell’intero Paese. Solo il tempo ci potrà dire se l’“uomo del Britannia”, sarà per l’Italia una scialuppa di salvataggio o una zattera della Medusa.

@barbadilloit

Enrico Nistri

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