Giornale di Bordo (di E.Nistri). La politica e gli scacchi: dalla mossa del cavallo di Renzi all’arrocco di Salvini (con la Meloni che tira diritto come una torre)

Le prospettive della divaricazione sovranista tra maggioranza e opposizione

Meloni e Salvini

Ogni politico ha le sue mosse preferite, anche se non gioca a scacchi. Se quella del cavallo è la mossa preferita di Renzi, l’altro Matteo, Salvini, questa volta ha scelto l’arrocco. L’arrocco, per chi fosse digiuno di scacchi, è una mossa difensiva, l’unica che può essere giocata spostando due pezzi contemporaneamente, il re e la torre, e presenta il vantaggio di collocare il primo in una posizione più sicura e l’altro in una posizione più attiva perché più centrale.

Fuori della metafora scacchistica, dietro la scelta leghista, obiettivamente non facile, di appoggiare Draghi è l’intento difensivo a prevalere, almeno per il momento; Salvini lo ha fatto capire senza mezzi termini, ricordando le centinaia di mail e di telefonate di imprenditori preoccupati di avere all’interno del governo qualcuno che ne tuteli gli interessi. Il “re”, nell’ottica leghista, è la Padania, dove il movimento è nato e ha ottenuto sempre i maggiori consensi. Certo, la scelta “nazionale” di Salvini ha consentito di allargare, talora con risultati clamorosi, i suffragi anche al Sud e persino al Centro. Ma il voto nel Mezzogiorno è, com’è noto, molto volatile, umorale, protestatario e non c’è nulla di strano né disdicevole se il leader leghista ha preferito entrare nel governo per tutelare il proprio elettorato di riferimento. La rappresentanza “verde” nella compagine ministeriale non è certo cospicua – tre dicasteri come Forza Italia, che ha un minor peso nel Parlamento e aveva già ottenuto la seconda carica dello Stato, – ma la presenza di Giorgetti al dicastero dello Sviluppo economico è rassicurante per le forze produttive che si riconoscono nella Lega; e poi, si sa, è sempre lecito sperare nei viceministri e nei sottosegretari.

Potrebbe essere facile ironizzare sullo scarso bottino ottenuto da Salvini con la sua “andata a Canossa”, anzi, per l’esattezza a Bruxelles, o se si preferisce sul piatto di lenticchie ottenuto da Matteo-Isaù dalla rinuncia alla primogenitura nella protesta sovranista, passata di fatto a Giorgia Meloni. Ma la realtà è più complessa e, quando si scriverà, documenti alla mano, la storia di questi ultimi anni si comprenderà che si trattava di una scelta obbligata. Quella che è stata bollata come una follia di mezza estate, la sfida del Papeete con relativa crisi di governo, è stata la reazione impulsiva a una non ingiustificata sindrome di accerchiamento, emersa quando i pentastellati erano entrati al Parlamento Europeo nella cosiddetta maggioranza Ursula, era stato montato contro la Lega uno scandalo sulla sollecitazione di finanziamenti dalla Russia e in Austria un governo sovranista era stato fatto cadere con un espediente non molto diverso. A Salvini può essere attribuita la colpa di non essere stato un Bismarck, che nel 1870 falsificando i dispacci di Metz si era fatto dichiarare guerra da Napoleone III, e di avere invece rotto lui le uova nel paniere di un governo gialloverde che aveva comunque non per causa sua i giorni contati. Ma non si può fare una colpa a Salvini di non essere un Bismarck, e nemmeno a Di Maio di non essere un Napoleone III, che commise un errore finale ma contribuì a fare l’Italia. Certo, rientrare al governo con una piccola deputazione dopo avere ricoperto un ministero chiave può essere letto come una diminutio capitis; ma è pur sempre meglio che rimanere alla finestra, mentre un’ambigua “maggioranza Ursula” si sarebbe spartita i contributi europei.

Negli scacchi però non esiste solo il re, ma anche la torre, la cui caratteristica è di non potersi spostare in diagonale come l’alfiere né saltando come il cavallo, probabilmente perché nell’originaria formula indiana del gioco simboleggiava il movimento dell’elefante su cui era montata una torretta. In queste circostanze – ma, per la verità, fin dall’inizio della legislatura – la mossa della torre è stata quella preferita da Giorgia Meloni, che votando contro tutti i due governi Conte e ora anche contro il ministero Draghi, è andata diritta sul cammino dell’intransigenza. È una scelta rivelatasi alla lunga pagante, a giudicare dalla crescita costante nei sondaggi elettorali, che però dipende da qualcosa di più serio delle preoccupazioni elettoralistiche. Anche se negli ultimi anni ha condiviso con la Lega di Salvini molte posizioni, contendendosi lo stesso elettorato, Fratelli d’Italia ha un Dna politico profondamente diverso, che, come avviene del resto per gli individui, comporta spesso riflessi condizionati e coazioni a ripetere ricorrenti, in senso positivo come negativo.

Nel Dna politico di FdI – di alcuni padri fondatori ma anche di vari giovani cresciuti nel mito di Almirante – non c’è il fascismo storico, che era esperto nell’arte di gestire il consenso, ma il Movimento sociale, con quell’etica e quell’estetica della sconfitta, con quell’orgoglio di sentirsi estranei ai giochi di potere che fu il grande richiamo nel mondo giovanile, ma anche il limite del Msi. Non tanto del Msi di Arturo Michelini, che non aveva fatto la Repubblica sociale e sarebbe riuscito a entrare nel 1960 nell’area di governo, se non fosse caduto nella trappola di Genova, ma del Msi, appunto, di Almirante, che proprio quando riceveva aperture dalla classe dirigente antifascista si irrigidiva su posizioni nostalgiche (avvenne in epoca craxiana, col discorso del Lirico di Milano nel gennaio del 1986; e in questo caso fu una scelta non priva di preveggenza, visto quello che sarebbe avvenuto con Tangentopoli). Non voglio dire con questo che i leader di Fratelli d’Italia siano prigionieri del nostalgismo o della mistica del “cercar la bella morte”; credo però che l’idea che chi sta all’opposizione sia eticamente superiore a chi scende a compromessi per andare al governo sia radicata nella classe dirigente e in larga parte dell’elettorato di FdI. È una visione romantica e, sarei tentato di dire, adolescenziale, che anch’io condivisi in gioventù, quando m’incantavano i manifesti bordati del tricolore della Giovane Italia, con le loro invettive contro una società corrotta “marcia negli uomini e nelle idee”. Credo però che sia fondamentalmente sbagliata, perché a volte ci vuole più eroismo a scendere a compromessi e a sporcarsi le mani col potere per salvare il salvabile che a lucrare i dividendi elettorali dell’opposizione.

Il Dna della Lega è invece molto diverso. Nonostante le pittoresche invettive contro “Roma ladrona”, la creatura di Umberto Bossi è stata fin dalle prime affermazioni significative una forza politica di governo, a livello locale e poi regionale. La selezione della maggior parte dei suoi dirigenti è passata attraverso un cursus honorum di consigliere e assessore comunale, provinciale (non a caso la Lega si è sempre opposta all’abolizione delle Province), infine regionale. Saper leggere un bilancio per la maggior parte dei suoi dirigenti è stato un requisito più importante che saper fare un bel comizio. Il radicamento nel territorio, il collegamento con le realtà produttive, è stato all’origine delle fortune del movimento e, negli anni del berlusconismo, la Lega è stata capace di collocare propri uomini in posizioni di potere anche a livello nazionale. Non sono mancati pasticci anche gravi, negli anni del bossismo declinante, come la gestione che sarebbe eufemistico definire disinvolta dei fondi pubblici o il pasticciaccio della “banca padana”; e senz’altro la segreteria di Salvini ha portato a un approccio più “movimentista” alla lotta politica. Ma l’impronta originaria rimane e non c’è da meravigliarsi se la prospettiva di partecipare alla gestione dei fondi europei per la maggior parte dei leghisti conta più della diffidenza verso “l’uomo del Britannia”.

Per il momento, questa divergenza di scelte fra i due partiti della destra risulta pagante anche in termini di consenso, con la Lega e FdI in testa entrambi nei sondaggi: con la Meloni intenta a gestire il dissenso e Salvini chino a gestire il consenso le prospettive per entrambi potrebbero risultare vincenti. Restano però due incognite. La prima è il rischio di una marginalizzazione della componente leghista in una squadra di governo in cui anche certi ministri tecnici sono politici (vedi Bianchi all’Istruzione) e la componente di Forza Italia è attestata su posizioni antisovraniste. L’altra, forse più insidiosa, potrebbe essere una scissione all’interno del Movimento Cinque Stelle, con la nascita di un nuovo movimento che sottrarrebbe a Fratelli d’Italia il monopolio dell’opposizione. In questo caso la mistica dell’opposizione, trasmessa ad Alessandro Di Battista per via cromosomica dal padre Vittorio, potrebbe giocare un brutto scherzo al partito della Meloni.

Enrico Nistri

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