Destre. “La Fiamma dimezzata” di Parlato racconta dettagli inediti della scissione di Democrazia nazionale

Il saggio del presidente della Fondazione De Felice-Spirito è edito da Luni

La Fiamma dimezzata di Giuseppe Parlato

La scissione di Democrazia Nazionale non lasciò spazio a molti dubbi interpretativi nella comunità missina, da sempre sensibile ai “richiami” nostalgici ed emotivi: fu considerata “un infame tradimento”, ordito da “venticinqueluglisti” corrotti dalla Democrazia Cristiana e denunciato dalle colonne del “Candido” da Giorgio Pisanò. Questo periodo storico della destra è affrontato nel saggio di Giuseppe Parlato “La fiamma dimezzata – Almirante e la scissione di Democrazia Nazionale” (pubblicato da Luni editrice nel 2020). Obiettivo dichiarato è individuare le cause di quell’evento a partire dall’elezione a segretario di Giorgio Almirante, basandosi sulla documentazione in parte inedita di archivi pubblici e privati, memorie e testimonianze orali in un contesto, quello del ‘68 e dell’autunno caldo, nel quale il MSI stava attraversando un periodo di crisi.

Il “doppio binario”

Resa possibile da un accordo dai contorni controversi e ancora oggi dibattuti, l’ascesa del nuovo segretario avvenne, a discapito di un apparente unanimismo, a patto di continuare la politica di apertura verso i monarchici, adoperandosi per unire ambienti a-fascisti, liberali e cattolici per condizionare la Democrazia Cristiana, sostenendola solo nel caso in cui avesse intrapreso davvero una linea anticomunista.  

Almirante plasmò il partito a propria immagine e somiglianza muovendosi lungo alcune direttrici principali: un’ampia ristrutturazione organizzativa, che produsse nel tempo un apparato burocratico elefantiaco; il recupero dei fuoriusciti, in particolare la componente rautiana di Ordine Nuovo; un attivismo finalizzato a conquistare visibilità nelle piazze. Oratore raffinato e a proprio agio sia nei salotti televisivi che nell’aula parlamentare, abilissimo nell’alternare parole d’ordine moderate ed anticomuniste a motti rivoluzionari e anti-sistemici, egli impresse non di rado alla propria politica una linea altalenante utilizzando, a seconda delle situazioni, linguaggi differenti.

Il ricorso al “doppio binario” rientrò nel più ampio disegno finalizzato a tenere insieme le componenti conservatrice e moderata, socializzatrice di sinistra e rivoluzionaria, catalizzatrice del consenso giovanile. “Noi siamo la Destra nazionale, l’idea corporativa, l’alternativa al sistema”: l’utilizzo dell’ultimo concetto dello slogan congressuale del 1970 avveniva ora in senso rivoluzionario, ora a sostegno delle istanze favorevoli al presidenzialismo, ora come strumento di difesa dalla partitocrazia. I punti di riferimento ideali spaziavano, allo stesso tempo, dal pensiero di Adriano Romualdi a quello di Armando Plebe, filosofo ex marxista nominato responsabile della cultura – in un ambiente generalmente propenso a considerare l’impegno intellettuale un optional e verso il quale il nuovo arrivato non nascose un disprezzo di fondo – al culmine di un’operazione dettata “da ragioni d’immagine” e “da puro e semplice anticomunismo senza tensione storica”, come evidenziato da Marco Tarchi e Giano Accame.

Le aperture al corporativismo, i richiami alla collaborazione tra le classi e all’alternativa sociale furono soprattutto espedienti tattici. Il sentimento di sfiducia verso il sistema democratico e parlamentare, accompagnato dall’idea che la sovranità risiedesse nello Stato e trovasse i propri canali di sviluppo nelle rappresentanze corporative non si concretizzò nella trasformazione del MSI in una forza articolata su base territoriale e per categorie, prestando il fianco alle interpretazioni di chi – come Gianni Scipione Rossi – ha individuato nella Fiamma almirantiana ”un grande caleidoscopio nel quale ciascuno sceglie la sfaccettatura che più gli piace”.

Fuori dall’arco costituzionale

L’indubbio successo ottenuto alle elezioni politiche del ‘72 dal “MSI – Destra nazionale” – a ben vedere inferiore alle aspettative perché la Democrazia Cristiana resse l’urto, mentre i missini non diventarono determinanti – fu più o meno coevo all’inizio di una serie di attacchi indipendenti tra loro: gli atti terroristici della sinistra rivoluzionaria; l’accusa in sede giudiziaria di ricostituzione del partito fascista; l’offensiva politica della Democrazia Cristiana determinata a recuperare il consenso moderato e a negare legittimazione politica ai “fascisti”.  

Almirante, che nel frattempo accentrò su di sé la carica di segretario amministrativo, impose il voto contrario alla fiducia per il governo Andreotti-Malagodi sconfessando i moderati che chiedevano il dialogo; non escluse lo scontro fisico di fronte alle minacce di aggressione comunista, ma soprattutto non recise il legame con i gruppi violenti della destra extra-parlamentare, convincendo gran parte dell’opinione pubblica moderata che il suo partito non potesse credibilmente porsi come garante dell’ordine pubblico e della sicurezza.  

Con riferimento al passato rivendicava da un lato il merito della storicizzazione del fascismo per accontentare alcune istanze culturali sostenitrici della necessità di archiviare il nostalgismo, dall’altro accreditava l’immagine di un partito continuatore della vecchia eredità. Evidenziando le debolezze dell’azione giudiziaria che accusava il segretario del reato di ricostituzione del partito fascista, Mario Scelba sottolineò anche la contraddizione della richiesta di autorizzazione a procedere ricevuta dalla dirigenza del partito, limitata però al periodo compreso tra il 1969 ed il 1972 perché sarebbe stato difficile spiegare le ragioni in base alle quali, in precedenza, più di un esecutivo avesse beneficiato dei voti missini. Intanto le manovre democristiane per il ritorno ai governi di centrosinistra determinarono l’esclusione della Fiamma dal consesso dei partiti dell’arco costituzionale.

Dalla Costituente di destra a Democrazia Nazionale

La politicizzazione del referendum sul divorzio illuse probabilmente Almirante che ci fossero ancora spazi di manovra per convincere Moro ad abbandonare la strada del compromesso storico. 

Il netto rovescio delle urne aggravò un contesto interno già difficile: evitata la rottura con Achille Lauro, il segretario – difronte alle istanze di una componente moderata che sbandierava, specialmente nella persona di De Marzio, la scelta democratica e pluralista – annunciò la convocazione di una “Costituente nazionale della destra”, che ottenne le adesioni più significative tra rappresentanti delle professioni, docenti universitari, militari e qualche imprenditore, galvanizzando inizialmente le periferie missine.

Mettendo impietosamente a nudo carenze organizzative, mediocrità delle liste elettorali, mancanza di una politica culturale, eccessiva durata delle cariche interne a scapito del ricambio con i giovani, l’editore d’area Giovanni Volpe sottolineò le falle di un progetto politico – costruito intorno ai richiami qualunquistici dell’ordine e del rispetto della legge – che aveva l’ambizione di ottenere un consenso significativo tra i moderati. Intercettato dalla Democrazia Cristiana, il proposito fu mortificato anche dal fatto che la Costituente sparì dal dibattito politico, lasciando una traccia apparentemente insignificante nel nome delle liste della Fiamma in vista delle elezioni anticipate del 1976.

Il risultato elettorale indusse Almirante ad anticipare i tempi e ad abbandonare i moderati, decisi a liquidare l’elemento identitario. Caratterizzata da un crescendo di attacchi reciprochi, tatticismi, trattative estenuanti ed incentrata sostanzialmente sulla questione del rinvio del Congresso, la contesa ebbe un colpo di scena quando il segretario presentò le “dimissioni” all’Esecutivo nazionale, allo scopo di individuare e squalificare gli avversari interni e ponendo una clausola del tutto particolare: se la notizia fosse apparsa sulla stampa, l’avrebbe smentita.

Il segretario contestò le elezioni di De Marzio e Nencioni alla Presidenza dei gruppi parlamentari, chiedendo che fossero ritenute provvisorie; approfittò del “nuovo corso” di Rauti e della sua corrente “Linea Futura” per riequilibrare l’assetto dell’Esecutivo, aumentandone il numero dei componenti ed inserendo dirigenti graditi. 

Due scissioni

Nelle memorie del senatore Domenico Manno il dibattito interno sul voto al governo della “non sfiducia” fu pesante: mentre la maggioranza dei gruppi avrebbe voluto astenersi per neutralizzare i comunisti e mettere in difficoltà i democristiani, Almirante impose la formula dell’astensione “condizionata” causando l’irrigidimento di Andreotti e il voto contrario dei missini. Ulteriore elemento di frizione fu il voto relativo alla designazione dei rappresentanti italiani al Parlamento europeo, che spinse il padre “spirituale” del partito – Pino Romualdi – a sostenere ancor più decisamente la linea della segreteria.

Più o meno parallelamente alla costituzione ufficiale della corrente di Democrazia Nazionale, giovani missini diedero vita a Destra popolare con l’obiettivo di rinnovare le strutture interne e porre al centro dell’agenda politica la questione morale, già enfatizzata dal Fronte della Gioventù. Protagonista di un fallimentare tentativo di mediazione in extremis, la corrente di Massimo Anderson sarebbe in parte confluita nello schieramento demo-nazionale nei mesi successivi.

Ventisei deputati su quarantanove abbandonarono il gruppo parlamentare missino, con numeri rilevanti nelle varie articolazioni territoriali, seppur con percentuali inferiori e con l’eccezione delle Federazioni provinciali. L’operazione venne agevolata da un escamotage: presentandosi come “conseguenza” politica delle liste presentate alle elezioni del ‘76, Democrazia Nazionale costituì un gruppo autonomo usufruendo di oltre la metà del finanziamento pubblico dei missini, poi in parte utilizzato per restituire un prestito ricevuto da Silvio Berlusconi. 

L’intervento di Fanfani, che fece approvare in tempi rapidi una riforma del regolamento che consentì la costituzione del gruppo al Senato, non modificò il sostanziale disinteresse e l’estraneità della Democrazia Cristiana alla vicenda; in particolare Andreotti rifiutò, durante la crisi di governo del 1979 dovuta al venir meno dell’appoggio dei comunisti, i voti “sostitutivi” di Democrazia Nazionale preferendo “l’auto-affondamento” dell’esecutivo.

Il prezioso contributo di Parlato evidenzia l’elevato tasso di personalizzazione attribuito all’operazione da Almirante, che trasferì il problema dall’ambito politico a quello morale. Esauriti i dividendi della formula della Destra nazionale, una volta mutato il contesto scelse di rafforzare il legame con la base dei “credenti”. Prima che venisse dichiarata decaduta l’iscrizione degli scissionisti, molti dirigenti non allineati ricevettero una raccomandata a mano contenente pressanti inviti a dissociarsi e ad esprimere piena fiducia nel suo operato. Dal punto di vista umano la lacerazione venne vissuta in modo realmente sincero da pochi; tra questi Primo Siena, che aderì alla corrente di Democrazia Nazionale per poi abbandonare definitivamente la scena politica. A livello generale, infatti, lo strappo fu affrettato nei tempi e nei modi, si rivelò privo di collegamento con la base e viziato da difetti di comunicazione e calcoli elettorali. Appare, quindi, quantomeno opinabile – a modesto parere di chi scrive – la conclusione dell’autore secondo la quale “andò via con Democrazia Nazionale il meglio della classe dirigente missina”; affermazione che, qualora fosse vera, si configurerebbe piuttosto come un’aggravante.   

 

Andrea Scarano

Andrea Scarano su Barbadillo.it

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