Dojo. Non solo Giappone: le arti marziali negli altri Paesi asiatici\1

Ricognizione essenziale su alcune delle discipline di combattimento cinesi, coreane, thailandesi e vietnamite

Fino ad ora abbiamo parlato di discipline di origine prevalentemente giapponese. E ne parleremo ancora. Ma prima facciamo una pausa, perché tra le arti marziali ve ne sono diverse nate anche in altri Paesi dell’Estremo Oriente. Ve ne proponiamo in questa sede, in due puntate, una breve carrellata a nostro avviso utile per pennellare un quadro-mosaico complesso ma estremamente affascinante.

Arriva dalla Cina il Kung-fu (notissimo anche grazie all’attore sino-americano Bruce Lee, che lo ha spesso mostrato nei suoi film), che si può tradurre con “sforzo umano” o, letteralmente, “esercizio eseguito con abilità”. Si tratta – riferiscono le fonti – di un insieme di discipline e stili millenari, i cui dettami, tramandati nel Paese del Dragone da generazioni, racchiudono in sé tutto quanto riguarda le arti marziali tradizionali (in realtà sarebbe più corretto parlare in proposito di Wu-shu, che tradotto significa proprio “arte marziale”; ma la diffusione del termine Kung-fu, comunque non del tutto inappropriato, l’ha reso più utilizzato e comunque trova fondamento soprattutto quanto all’obiettivo – irrinunciabile – dei praticanti, che è in ogni caso il raggiungimento della massima abilità).

Lo scopo di chi si dedica al Kung-fu è, attraverso la continua e costante dedizione alle diverse arti necessarie per pervenire alla massima maestria, il conseguimento del completo equilibrio di mente e corpo. Quanto agli stili (notizie dettagliate sulla varietà e ricchezza degli stessi si trovano, a partire dal XVI secolo, in vari manuali compilati da ufficiali dell’esercito Ming), ad oggi ne esistono moltissimi, derivanti da altrettante scuole o dottrine nate e cresciute negli anni nelle varie zone della Cina.

Semplificando un po’, si può dire che la principale suddivisione tra gli stili o sistemi, la maggior parte dei quali prevede la pratica sia a mani nude sia con armi, è quella tra esterni (detti anche “duri”) e interni (o “morbidi”). Tale ripartizione nasce molto probabilmente alla fine dell’Ottocento in seguito alla diffusione di un testo del 1669 scritto dal letterato confuciano Huang Zongxi, in cui si evidenzia una differenza sostanziale tra la tecnica di Shaolin – detta “scuola esterna” – che si affida all’attacco impetuoso e travolgente e quella del maestro Wang Zhengnan (1616-1669) – detta “scuola interna” – che invece privilegia la difesa, le proiezioni e i colpi ai punti vitali.

In seguito – riferiscono alcune fonti – è divenuto comune considerare “interni” stili come taijiquan, xinyiquan e baguazhang ed “esterni” stili come shaolinquan, fanziquan, chuojiao. In verità i confini tra le due scuole sono molto relativi, per quanto sia evidente la fondamentale importanza attribuita “all’esercizio interno” negli stili interni, tanto da integrarlo in maniera indissolubile alla tecnica marziale, mentre negli stili esterni è spesso una componente separata dell’allenamento.

Vediamo brevemente, a titolo di esempio, una disciplina per “categoria”. Quella più rappresentativa delle “esterne” è sicuramente lo Shaolinquan (“pugilato della giovane foresta”), fondato dal leggendario monaco buddista Bodidharma nel 527 presso il tempio Shaolin (provincia di Henan). Consiste in una serie di tecniche di attacco (sferrate con braccia e gambe) e di difesa ed il principio fondamentale della disciplina sta nel passare rapidamente da una all’altra tecnica inframezzandole – diciamo così – con uno stato di morbidezza o cedevolezza, che indica un particolare atteggiamento fisico e mentale in cui i muscoli sono rilassati ma reattivi, i riflessi sono pronti e la mente è sgombra e pronta a reagire nel modo più adeguato alla situazione.

A proposito invece delle “interne”, va senz’altro citato il T’ai Chi Ch’uan (“pugilato della suprema polarità”), che viene anche da alcuni definito come una “meditazione in movimento”. Nato anticamente (non c’è certezza sulle origini temporali) come tecnica di combattimento completa, in seguito “ha modificato la propria funzione trasformandosi da stile incentrato sul combattimento a forma di pratica meditativa. Semplificando al massimo quella che risulta essere una complessa e centenaria disciplina – si legge nel blog Arti Marziali Italia – nel Tai Chi Chuan il praticante esegue di una serie di movimenti, lenti e circolari, che mimano la lotta con un opponente immaginario”.

Come in altre discipline, anche nel T’ai Chi ci sono diversi stili, che si differenziano principalmente per le tecniche e l’esecuzione dei movimenti. I due più popolari e diffusi sono lo Yang (basilare e relativamente più semplice) e il Chen (più complesso, che richiede una grande pratica e abnegazione).

Di fondamentale importanza per comprendere la disciplina in esame – adatta ad ogni tipologia di praticante ed oggi diffusa in tutto il mondo – è il concetto di “forma”, ovvero un “sistema di movimenti concatenati che vengono eseguiti in un modo lento, uniforme e senza interruzioni”. Ed è appunto dall’esecuzione della sequenza di movimenti detta “forma lenta” che inizia lo studio del T’ai Chi: gli allievi imparano gradualmente i movimenti e vengono attraverso essi introdotti ai “principi fondamentali di questa disciplina: la pace della mente, la capacità di muovere il corpo in modo rilassato e consapevole, la pratica del calmare il respiro. Scopo ultimo della pratica di quest’arte – riporta ancora Arti Marziali Italia – è stimolare il libero fluire dell’energia vitale (il Chi) e così ristabilire armonia ed equilibrio tra corpo, mente e spirito”.

Cristina Di Giorgi

Cristina Di Giorgi su Barbadillo.it

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