Giornale di Bordo. Gli arresti in Francia dei brigatisti, Mitterrand il Fiorentino e la barbara legislazione sui pentiti

Il commento di Enrico Nistri sui provvedimenti cautelari riservati Oltralpe a una decina di terroristi rossi

Il collage dell’Ansa dei brigatisti arrestati

La notizia dell’arresto e dell’incarcerazione (purtroppo effimera) di numerosi terroristi rossi latitanti in Francia, dove avevano sinora goduto di asilo politico, ha suscitato in Italia soddisfazione in un arco politico molto ampio, che spazia dalla destra a ex esponenti di spicco del partito comunista, come il giudice Violante. A differenza che Oltralpe, dove le solite scimmie astute di Sartre e della de Beauvoir hanno espresso la loro solidarietà con gli ex brigatisti, quella che a Firenze chiamiamo la “sinistra fiesolana” ha evitato in genere posizioni troppo nette nella difesa degli indifendibili. Accanto all’apprezzamento per la rottamazione della “dottrina Mitterrand”, attribuita da molti al prestigio di cui godono l’attuale premier e la guardasigilli Cartabia, hanno influito la solidarietà con il dolore dei familiari delle vittime, a lungo dimenticati, e la speranza, forse troppo ottimistica, che il cambio di passo all’Eliseo possa rappresentare il sintomo di un accresciuto peso dell’Italia in Europa. Certo, c’è chi ha auspicato un “percorso di riconciliazione” fra i colpevoli e le vittime, paragonando implicitamente l’Italia degli anni di piombo al Cile o al Sudafrica, e chi ha fatto presente che gli arrestati sono ormai persone anziane,; ma nessuno avrebbe impedito loro di lasciare prima la Francia e magari di difendersi in un’aula di tribunale, evitando un processo in contumacia. Nel complesso, però, le flatulenze di qualche attempato reduce delle utopie del ’77 sono rimaste isolate.

Una voce dissonante all’interno del coro è stata quella di Giuliano Ferrara, fedele alla sua vocazione di bastian contrario, istituzionalmente vocato a épater le bourgeois. Con un commento uscito sul “Foglio” il 29 aprile, dopo aver rivendicato il suo passato di strenuo avversario delle Brigate Rosse negli anni di piombo, ha preso le distanze dal “clima di giubilo” che ha accompagnato gli arresti in Francia, e in particolare da un’“ansia di vendetta”, “sentimento avvilente che sa di sconfitta”.

Gli ha replicato, indirettamente, Massimo Adinolfi, sul “Mattino” del 30 aprile, con una bella citazione di Jacques Derrida, secondo il quale c’è sempre un po’ di vendetta nella giustizia e un po’ di giustizia nella vendetta. Non so se Derrida sia davvero, come sostiene Adinolfi, il più grande filosofo francese del secolo scorso, ma certo nella sua finezza questo aforisma lo colloca nella grande scia dei moralisti classici e non sarebbe stata male sulle labbra di un La Rochefoucauld. Piaccia o meno, la giustizia è una sublimazione della vendetta e la pretesa che la pena debba mirare solo alla riabilitazione del detenuto, magari facendolo studiare a spese dello Stato, quasi a risarcirlo del male che ha fatto alla società, mi è sempre parsa una delle tante ipocrisie di quello che Vilfredo Pareto chiamava il virtuismo democratico. Nel suo Dei delitti e delle pene, libro più citato che letto, Beccaria adduceva come argomento favorevole alla sostituzione della pena di morte con l’ergastolo il fatto che i lavori forzati a vita sono molto più dolorosi di un’esecuzione, e che il reo, trasformato in uno schiavo, rende alla società un servizio col quale potrà in parte compensarla dei danni che le ha recato. Oltre tutto, se nei confronti degli ex brigatisti una componente di vendetta ci sarà, si tratterà di una ben modesta vendetta. Sempre che non approfittino delle lunghe more dell’estradizione per evadere, quando, prevedibilmente fra un paio d’anni, saranno tradotti in Italia non saranno mandati a bonificare paludi o a remare nelle galere, ma con ogni probabilità saranno affidati ai servizi sociali o beneficeranno degli arresti domiciliari, per le condizioni di salute o per raggiunti limiti d’età.

Ciò premesso, anch’io avverto un sottile disagio dinanzi a questi arresti tardivi. Non perché gli arrestati siano persone diverse da quando hanno commesso i loro crimini (tutti cambiamo, e con questo argomento “eracliteo” nessuno dovrebbe scontare la pena, visto che non è lo stesso di prima) o perché io provi nei loro confronti alcuna simpatia. In alcuni di loro anzi avverto un’arroganza da figli di papà convinti di poterla fare comunque sempre franca: tipico il caso di Pietrostefani, il figlio del prefetto divenuto dirigente d’azienda prima di essere coinvolto nel processo per l’assassinio del commissario Calabresi. Il mio disagio deriva invece dal fatto che nella genesi della dottrina Mitterrand non c’era solo il machiavellismo del presidente soprannominato non a caso Le Florentin, e nemmeno una sottile forma di supponenza dei cugini d’Oltralpe, inclini, in quanto figli della “patria della libertà”, a guardare dall’alto in basso alla giustizia italiana. Fra gli argomenti addotti in Francia contro l’estradizione dei brigatisti ce n’era uno tutt’altro che indondato: la legislazione sui pentiti, varata in Italia nel 1982, tre anni prima che fosse elaborata la dottrina Mitterrand. Una legislazione che, incoraggiando la delazione (anche infondata), introducendo sconti di pena spropositati per i “collaboratori di giustizia” (dieci anni di reclusione al posto dell’ergastolo), permettendo di fatto di valutare la parola di un pluriomicida più attendibile di quella di un cittadino incensurato, ha inflitto una ferita ancora non risarcita allo Stato di diritto. Nata come provvisoria, per fronteggiare un’emergenza innegabile (“siamo in guerra”, secondo la celebre frase dell’allora presidente della Repubblica), tale legislazione si è incistata nel nostro ordinamento giuridico, ha permesso l’istruzione di processi indiziari, come nel caso dell’inchiesta sulla strage di Bologna, ha posto nelle mani di magistrati politicizzati uno strumento formidabile per indirizzare le indagini nella direzione voluta, e ha reso possibili tragici errori giudiziari.

È onesto ricordare che il varo della dottrina Mitterrand è quasi contemporaneo alla vergogna del caso Tortora, che vide il popolare (e innocentissimo) presentatore e giornalista televisivo arrestato nel giugno del 1983 e condannato a dieci anni di reclusione nel settembre del 1985, sulla base di accuse rivelatesi in seguito totalmente infondate. Sotto questo profilo la giustizia francese qualche buon motivo per diffidare del nostro sistema giudiziario ce lo poteva avere, come del resto ce l’aveva la giustizia britannica, all’epoca molto garantista, che negò l’estradizione negli stessi anni a presunti terroristi neri perseguiti negli stessi anni. Altro però è vagliare seriamente caso per caso l’attendibilità delle accuse, come facevano i magistrati inglesi, altro concedere indiscriminatamente il diritto d’asilo a tutti i condannati per delitti politici.

Ricordare questo, naturalmente, non implica alcuna solidarietà per i terroristi italiani rifugiatisi in Francia. Anzi, avere provocato con le loro gesta infami una legislazione liberticida, nata come provvisoria per poi divenire definitiva, è, forse ancora più dei fatti di sangue di cui sono responsabili, una delle loro colpe peggiori.

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

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