Addio a Battiato, il Maestro che ha influenzato (anche) chi non può comprenderlo

Il viaggio di Franco Battiato dai temi pop fino alla contemplazione delle fonti della Tradizione

Franco Battiato e un monaco tibetano

Franco Battiato è sceso dalla tigre che aveva cavalcato, con crescente consapevolezza, fin dai suoi esordi. Se se ne ascoltano i primissimi brani, si ritrovano i temi e i luoghi cari al “mainstream” della gioventù sessantottina: l’isola di White e l’autostop, Woodstock, la libertà senza regole e l’abolizione delle frontiere e perfino quello spirito di solidarietà universale che ispirò la “New Age”. Poi ci fu l’incontro con la Tradizione e i suoi interpreti e continuatori, fra i quali è doveroso annoverarlo, sia pure accettandone alcune contraddizioni, evitando commistioni con lo spiritualismo di facciata (“Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo”, ammoniva già Julius Evola).

 

A cadavere caldo, è già cominciato il gioco delle appropriazioni, da parte della “sinistra colta”, quella dei Mentana e di Repubblica, per intenderci; quella che ha dimenticato – o lo ha semplicemente messo fra parentesi? – il materialismo storico, l’homo oeconomicus e la lotta di classe.

Battiato ha sì un passato ‘di destra’, ma poi si è ravveduto ed è diventato “de sinistra”, anzi, anarchico”. Io stesso, lo confesso, anni fa scrissi sul “Giornale” un corsivo in polemica con il Maestro, che negava ogni sua appartenenza a quella dannata parte politica; ma sbagliavo. Avevo in mente un’idea di destra davvero troppo nobile e rarefatta, la ricollegavo alle sue radici che affondano nel sanscrito e nel sacro, e facevo un salto mortale all’indietro, come se non si fossero succedute nei secoli categorie diverse e storicamente contraddittorie di “destre”, molte delle quali imperniate proprio sull’homo oeconomicus.

 

Ma lasciamo stare: non è questa la sede né l’occasione per parlarne, e torniamo a Battiato. E’ forse peculiare della sensibilità più genuina della sinistra quel patrimonio culturale che sta dentro brani come “L’era del cinghiale bianco” e “L’animale”, “Lode all’inviolato” e “Oceano di silenzio”, “E ti vengo a cercare” e perfino “Centro di gravità permanente”, “Ho fatto scalo a Grado” e “Chanson egocentrique”?. Per tacere di “Gilgamesh”, l’opera in due atti che vede protagonista l’omonimo eroe della tradizione babilonese e s’ispira alla teogonia e alla mitologia di quella civiltà.

 

Solo chi non ha mai letto René Guénon e Frithjof Schuon, Georges Ivanovic Gurdjieff e René Daumal può accostare Franco Battiato alla cultura materialista o a quella libertaria dei diritti a 360°, oggi imperante nel mainstream che aspira a diventare “Pensiero Unico”. L’adesione alla teoria dei cicli cosmici (L’era del cinghiale bianco), l’antropologia sottile che sta alla base di un brano come “L’animale”, l’unità trascendente delle religioni, dallo sciamanesimo al sufismo, dal taoismo allo stesso cattolicesimo esoterico (Lode all’Inviolato, “Oceano di Silenzio”, “E ti vengo a cercare”) sono tutti temi appartenenti alla Tradizione.

 

Dicevamo delle contraddizioni di Battiato, alcune solo apparenti, altre più sostanziali. Quelle apparenti, riguardano il suo rifiuto della civiltà consumistica, nelle sue più disparate manifestazioni (no a profumi e deodoranti, ma anche ai cori russi e alla “nera africana” e perfino a Beethoven e Sinatra, in vista di un tempo/non-tempo in cui “non ti servirà l’inglese”); apparenti, perché quel rifiuto non viene gridato nel nome di una libertà a rischio di libertinismo e di nichilismo, bensì nella prospettiva di una superiore conoscenza. Contraddizione sostanziale, perché questa superiore conoscenza non può essere per tutti, nemmeno in una cultura e in una società “di massa”, che consuma, ignara, la musica e i testi di Franco Battiato.

 

Così, il Maestro ha esercitato un’influenza sui “molti”, segnandone momenti più o meno felici di biografie ordinarie, con le sue canzoni; ma su qualcuno ha di certo suscitato la curiosità per Autori e testi che a quella conoscenza superiore possono avviare. Quanto a me, gli devo, fra l’altro, la curiosità che mi spinse ad assistere, anni fa, alla sama, danza rituale dei dervisci tourneurs, nella città sacra di Konya, in Anatolia, dove riposa il mistico Rumi. E allora, lasciamo da parte le nostre beghe di bassa politica, e dedichiamo un momento di silenzio al Maestro che ha intrapreso il suo Viaggio.

 

 

Giuseppe Del Ninno

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