Le radici (filosofiche) del pensiero meridiano

Una riflessione che unisce i fili delle speculazioni di Albert Camus, Franco Cassano e Marcello Veneziani

Il Mediterraneo

In un recente articolo apparso sul n. 22 di Panorama intitolato «E dal Sud sorge un pensiero solare» Marcello Veneziani torna su un tema a lui (e a noi) caro, quello riguardante il pensiero meridiano, o mediterraneo che dir si voglia E cita Albert Camus, che per primo l’aveva intuito, e  un sociologo barese di provenienza marxista, Franco Cassano, che l’ha  efficacemente teorizzato. Dovremmo aggiungere a questi autori almeno Ortega y Gasset, che a cominciare dalla sua prima opera, Meditazioni del Chisciotte (1914) aveva già magistralmente tratteggiato l’opposizione (e insieme la complementarietà) della cultura mediterranea rispetto alla cultura nordica: «il Mediterraneo – scriveva – è un’ardente e perpetua giustificazione della sensualità, dell’apparenza, delle superfici, delle impressioni fugaci che le cose lasciano nei nostri nervi commossi». È, del resto, del pensatore spagnolo la famosa formula riassuntiva della sua filosofia e suscettiva di sviluppi in senso ecologista: «io sono io e la mia circostanza, e se non salvo questa non salvo neanche me stesso». 

Ma che cos’è il pensiero meridiano? Scrive Veneziani: «È il pensiero del Mezzogiorno, della terra, del mare e della luce; geofilosofia, cioè pensiero che si lega al genius loci […] opposto al predominio del tempo che è alla base di ogni teoria progressista ed evoluzionista […]. Il pensiero meridiano, invece, è un pensiero calmo, fondato sulla contemplazione e sul legame organico tra l’intelligenza e il paesaggio». Non c’è dubbio che l’ambiente, inteso innanzitutto come mondo naturale prima ancora che sociale, sia uno degli ingredienti fondamentali della nostra personalità. Partire dai dati naturali (questa terra, questo cielo, il proprio essere maschile o femminile, e così via) significa ammettere i propri limiti, non scambiare l’io sono con l’io voglio, rispettare e non prevaricare sull’altro da sé, su ciò che ci circonda. Significa, in poche parole, accettare il destino. 

Sennonché la tradizione filosofica a partire da Socrate, fatte salve poche eccezioni rappresentate dal pensiero rinascimentale italiano (Telesio, Bruno, Campanella), da Vico (la sapienza poetica) e da Nietzsche (la filosofia del mattino), ha per lo più trascurato o deliberatamente messo da parte questo legame tra pensiero e paesaggio naturale. Nel Fedro Platone mette in bocca a Socrate queste parole: «Io ho la passione dell’imparare, ma la campagna e gli alberi non mi insegnano nulla, mentre imparo dagli uomini di città». 

Chiosa a questo proposito Veneziani in una straordinaria pagina del suo Nostalgia degli dei: «Il pensiero della metropoli, l’umanesimo, sono racchiusi in quelle poche parole riferite da Platone. Comincia così la filosofia, il viaggio urbano della modernità in pectore, la svolta antropocentrica che disancora l’uomo dai luoghi […] Comincia col filosofo senza patria, apolide, apatride, il disincanto del cosmo. Non c’è un tempio né una patria a cui tornare, perché l’unico tempio […] è il tempio interiore». E prosegue: «Eppure esiste un legame non accidentale tra pensiero e paesaggio. La luce del pensiero greco riflette la luce del paesaggio mediterraneo, i suoi ulivi ondeggianti al vento, la preponderanza del suo mare, il bianco e l’azzurro che s’intarsiano al sole […]. Ma il genius loci, a ben vedere, spira anche nel pensiero moderno. Non capiremmo l’aspirazione al cielo inconoscibile, la romantica invocazione della Notte, il richiamo tedesco al Noumeno e all’invisibile se non conoscessimo i cieli ombrosi e cupi della Germania».   

Ma è nella svolta antropocentrica, che guida il pensiero da oltre due millenni, il seme dell’utopismo e della distruzione della Natura vivente. Notava Nietzsche ne La nascita della tragedia che Socrate, da lui elevato a massimo esponente e sintomo della decadenza del mondo greco, credé di correggere l’esistenza. Ed è osservazione comune che l’età moderna, col suo mito del progresso e della scienza, è intimamente rivoluzionaria. «Nel suo significato più intimo, “spirito rivoluzionario” significa non solo preoccupazione di migliorare, cosa che del resto è sempre eccellente e nobile, ma credere che si possa, senza limiti, essere quello che non si è, e che basti credere in un ordine del mondo o della società che ci sembrano ottimi, perché dobbiamo realizzarli, non avvertendo che il mondo e la società hanno una struttura essenzialmente incangiabile, la quale limita la realizzazione dei nostri desideri […]. Allo spirito rivoluzionario che tenta, utopisticamente, di fare in modo che le cose siano ciò che mai potranno essere o dovranno essere, è meglio sostituire il grande principio etico che Pindaro liricamente definisce: cerca di essere quello che sei» (Ortega y Gasset, Che cos’ è la filosofia?).

Preziose sono dunque le filosofie dell’ecologia profonda (Arne Naess, Rupert Sheldrake, Rutilio Sermonti, ecc.), che si pongono come geofilosofie, perché cercano di recuperare il legame con il paesaggio e vogliono restituire integrità al mondo.

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Sandro Marano

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