Il Faust di Pessoa: una tragedia del soggetto\1

Il "progresso" come basato sulla degenerazione in un'opera più lirica che drammaturgica e peculiarmente pessoana

Fernando Pessoa, figura umana e letteraria assai complessa e per molti versi enigmatica, è l’uomo plurimo per eccellenza. Plurimo, prima di tutto, a seguito della sua oramai più che nota “spersonalizzazione”, con la creazione di molteplici maschere, meglio conosciute con il termine di “eteronimi”. Quelli maggiori corrispondono ai nomi di Alberto Caeiro (il maestro di tutti gli altri eteronimi e dello stesso Pessoa, stoico, uomo schivo e solitario, amante della vita di campagna, luogo in cui comporrà quasi tutti i suoi poemi), di Ricardo Reis (medico, neopagano, auto esiliatosi in Brasile nel 1919 per le sue idee monarchiche e autore di varie odi) e di Álvaro de Campos (ingegnere navale, laureatosi a Glasgow, instancabile viaggiatore, convinto avanguardista, futurista, iconoclasta e nietzschiano, nonché prolifico scrittore tanto in versi quanto in prosa). Una «”coterie” inesistente» – così la definisce Pessoa in occasione della spiegazione all’amico Adolfo Casais Monteiro, in una lettera del 13 gennaio 1935, della sua eteronimia [cit. in QUADROS, 1986: 224-231 (228)] – cui andranno ad aggiungersi molti altri semi-eteronimi: maggiori (è il caso di Bernardo Soares, ragioniere lisbonese, autore dell’ormai celeberrimo Il libro dell’inquietudine) e minori (António Mora, Raphael Baldaya, Abílio Quaresma, il Barão de Teive e molti altri ancora). Complessivamente, oltre centotrenta autori fittizi tra eteronimi, semi-eteronimi e pseudonimi [cfr. PIZARRO – FERRARI, 2013], artefici insieme al loro demiurgo di oltre 27.000 testi, di cui solo 431 (299 in versi e 132 in prosa) pubblicati nel corso della vita di Pessoa [cfr. BLANCO, 1983: 13]. Il resto, una mole enorme di scritti – in maggioranza, specialmente quelli in prosa, frammentari e incompiuti – resterà custodito in un baule, per poi nel corso degli anni, grazie al lavoro molto accurato svolto da alcuni ricercatori portoghesi, essere riesumati, catalogati, decifrati, poiché molti di essi manoscritti, e più tardi pubblicati.

Siamo al cospetto – nelle parole di Giulia Lanciani – della

 

«poetica pessoana del frammentario: “I miei scritti, tutti, sono rimasti incompiuti; si sono sempre interposti nuovi pensieri straordinari, ineludibili associazioni di idee il cui termine era l’infinito. Non posso evitare l’odio che i miei pensieri hanno nel portare a termine qualsiasi cosa”. E del resto, ciò che designiamo come opera pessoana è in realtà un insieme di opere-frammenti al contempo autonomi e collegati gli uni con gli altri per il fatto che ognuno di essi è la manifestazione di un’esperienza unica e inesauribile: ovvero, quella dell’assenza dell’Io a se stesso e al Mondo» [LANCIANI, 2000: 193-194].

 

Tornando alla spersonalizzazione di Pessoa, essa si attuerà, come già detto, soprattutto con Caeiro, Reis e Campos. Tutti poeti, come il loro demiurgo. Con caratteristiche individuali, tuttavia, sotto l’aspetto sia formale che sostanziale, poiché ciascuno di loro comporrà in perfetta e rigorosa autonomia stilistica e concettuale; e perfino provvisti di biografie, curiosamente inventate da Pessoa.

È chiaro come in questa sede sia impossibile affrontare, nella loro completezza, i perché dell’eteronimia pessoana. Mi limiterò solo a dire che, pur dando in qualche modo credito allo stesso poeta allorquando scrive – nella sopraccitata lettera ad Adolfo Casais Monteiro

«l’origine mentale dei miei eteronimi risiede nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione» [Cit. in QUADROS, 1986: 224-231 (226)],

sono dell’avviso, d’accordo con l’opinione espressa in merito da António Quadros, che la scissione o «trasmutazione» di personalità in Pessoa è dovuta a un «processo psicologico-alchemico» – non si deve dimenticare, in tal senso, il suo grande interesse per l’esoterismo, l’occultismo e tutto quel che si riporti alla magia, quale appunto l’alchimia.

Scrive Quadros:

 

«distinguendo, assumendo e conoscendo separatamente le parti elementari della sua anima, Pessoa conquistò il Sé (nella terminologia di Jung), vale a dire, superò le sue tendenze contraddittorie o i suoi “cambiamenti di personalità”, per diventare il nostromo del suo essere multiplo e conflittuale, invece di essere dominato e distrutto, come era accaduto a Mário de Sá-Carneiro» [QUADROS, s. d.: 47-48]

 

– il grande amico di Pessoa, poeta e scrittore anch’egli, morto suicida giovanissimo, 26 anni appena, a Parigi nel 1916. Quindi, un “gioco” eteronimico in qualche modo salutare per il suo creatore, ma che finisce per trascendere la drammatica finzione delle maschere, poiché il «viaggio pessoano», pur compiendosi in parte nella «persona degli altri», ossia, negli eteronimi, «resta circoscritto» – e qui ancora una volta faccio mie le parole di Giulia Lanciani –

 

«nell’ambito della persona propria, cioè nel perimetro della soggettività; metamorfosi che sono dei modi per entrare nel corpo altrui […] Entrare negli altri con la promessa, anche se rinviata, di un ritorno ad una identità depurata, originaria e imparziale. Insomma, la trasformazione negli altri è vista come l’unico mezzo che l’io ha a disposizione per ritrovare, attraverso l’eterogeneità, una sua omogeneità smarrita» [LANCIANI, 2000: 192].

 

Ciò è tanto vero che, nonostante Pessoa abbia più volte sostenuto, sia in missive indirizzate ad amici, sia in dichiarazioni pubbliche, che i suoi eteronomi maggiori devono essere considerati come delle individualità distinte da lui stesso, che devono essere letti come dei poeti indipendenti l’uno dagli altri e da lui stesso (difatti, ad esempio, è praticamente impossibile confondere un’ode di Reis con una qualunque di Campos o un’opera di uno di loro con una sola poesia dell’ortonimo), egli si è detto anche convinto che questi eteronimi sono intimamente in rapporto sia tra di loro sia con il loro demiurgo, poiché tanto Ricardo Reis e Álvaro de Campos quanto Pessoa lui stesso sono discepoli di Alberto Caeiro [cfr. QUADROS, 1986: 224-231 (228)].

Eterogeneo e plurimo, tuttavia, Fernando Pessoa lo è stato anche quanto ai suoi interessi e alla sua attività di scrittore e pensatore; interessi e attività che spaziavano dalla poesia al teatro, dai racconti polizieschi a quelli di terrore, dalla critica letteraria a quella storica, dalla sociologia alla politica, dalla polemica giornalistica all’economia, dalla filosofia alle scienze occulte. Un uomo plurimo ed enigmatico che amava dire, quasi a volere mettere sull’avviso i suoi futuri biografi e studiosi, che il suo interesse per la vita era quello di «un decifratore di sciarade».

Tutto quello finora da me riferito a mo’ di cappello introduttivo all’argomento di questo mio scritto occorreva che fosse detto. Difatti, ho la convinzione che Pessoa non possa assolutamente essere studiato e compreso appieno se lo si seziona come se la sua opera – incluso il Faust – e il suo pensiero fossero o potessero essere divisi in “compartimenti stagni”. Lo stesso “gioco” eteronimico, questa specie di diffrazione dell’Io pessoano, ha non di rado, nel passato anche recente, indotto in tale errore parte della critica. In realtà, e per le ragioni poc’anzi esposte, l’opera tutta di Fernando Pessoa deve essere ritenuta unitaria e inscindibile, come unitaria e inscindibile è la sua “doppia anima”, quella “poetica” e quella “teorica”. Il tutto, in considerazione del fatto che al poeta fa sempre da supporto il pensatore e viceversa: delle continue e ripetute “invasioni di campo” che spiegano, da un lato, la presenza di versi mirifici quali quelli di Messaggio – il suo poema più rappresentativo e conosciuto, nonché giustamente più celebrato – dall’altro, la presenza del mito superomistico, della creazione del «Supra-Camões», di quel poeta supremo e completo in cui, direttamente o indirettamente, Pessoa stesso s’identificava.

Passando al suo Faust, premetto che, al di là dall’essere incompiuta e frammentaria, è un’opera teatrale di certo sui generis, più prossima alla lirica che alla drammaturgia. Potremmo definirla un’opera “peculiarmente pessoana”, tenendo conto anche del suo sottotitolo, quello di «tragedia soggettiva», ovvero, una “tragedia del soggetto”, quindi, dello stesso Fernando Pessoa, la cui tragedia soggettiva è la vera protagonista della sua propria condizione esistenziale.

Si aggiunga, inoltre, che a Pessoa mancò indiscutibilmente l’esperienza del teatro, il conoscerlo dal di dentro, vale a dire, il dietro le quinte, gli attori, le esigenze ed i trucchi della messinscena e della scenografia; difatti, senza tutto questo uno scrittore, pur se eccellente, ben difficilmente può aspirare a diventare un autore teatrale.

Esistono degli indizi assai attendibili che fanno ritenere come Pessoa abbia iniziato a lavorare al suo Faust attorno al 1907/1908, epoca in cui, oltre a subire un primo fascino per Goethe, si diede a scrivere anche e soprattutto nella sua lingua madre e non solo in inglese (ricordo che Pessoa trascorse gli anni dell’adolescenza, dal 1896 al 1905, quindi, tra gli otto ed i diciassette anni, a Durban, in Sudafrica, nell’allora colonia britannica di Natal, dove il patrigno era stato nominato console, iniziando e completando lì tutto il suo percorso scolastico: elementare, medio e medio-superiore).

Pochi anni dopo, nel 1913, iniziò a collaborare alla rivista lisbonese «Teatro – Jornal d’Arte», pubblicandovi tre articoli-recensioni piuttosto polemici e dai toni forti [rip. in QUADROS, 19942: 142-148]. Sostanzialmente, il fine di Pessoa e degli altri collaboratori della rivista era, con riferimento proprio al teatro epocale scritto e rappresentato in Portogallo, quello di «distruggere l’esistente», concependo il teatro stesso non più come «teatro-spettacolo» ma come – nelle parole di Mário de Sá-Carneiro – un’«arte plastica» [cit. in JÚDICE, 1986: 30].

Ecco che due dei futuri creatori di «Orpheu» (la celebre rivista, fondata a Lisbona nel 1915, presentatasi come il primo e vero manifesto del Modernismo portoghese, con le sue varie tendenze, e che l’eteronimo Álvaro de Campos avrebbe definito «la somma e la sintesi di tutti i movimenti letterari moderni»), appunto Pessoa e Sá-Carneiro, erano fortemente influenzati dalle idee simboliste sul dramma, quali quelle espresse da Mallarmé e, soprattutto, da Maeterlinck; non il Maeterlinck con una visione della vita confortante e serena espressa nella fiaba teatrale L’uccellino azzurro del 1909, ma il Maeterlinck simbolista degli inizi, ossia, de La principessa Maleine (1889) e de Le sette principesse (1891).

Sappiamo come i simbolisti, nel ritenere oramai svuotato d’ogni significato il teatro tradizionale, aspirassero, tra le altre cose, a che le opere drammatiche fossero semplicemente lette piuttosto che rappresentate. Nel caso non fosse stato possibile eliminare del tutto gli attori – sostituendoli, ad esempio, come proponeva lo stesso Maeterlinck, con delle figure di cera o delle ombre – quantomeno ridurre in modo drastico la loro presenza sulla scena. A ben vedere fu proprio il drammaturgo belga che coniò il termine «dramma statico», poi utilizzato da Pessoa per classificare la sua unica opera teatrale pubblicata in vita (tutte le altre, più di venti, ci sono state tramandate in stato frammentario), e apparsa sul primo numero della rivista «Orpheu» con il titolo Il Marinaio. Dramma statico in un quadro: senz’altro il suo migliore testo drammaturgico, sia perché lo completò e lo rivide lui stesso – anche se non venne mai messo in scena nel corso della sua vita – sia perché si tratta di una composizione originalissima ed esteticamente ben costruita dentro un linguaggio dal sapore simbolista, sia, soprattutto, perché Pessoa ha saputo utilizzare magistralmente immagini e concetti che mettono in causa la realtà o l’irrealtà del mondo e del tempo – quindi, con un chiaro riferimento alla dicotomia verità/finzione e, conseguentemente, al “gioco” eteronimico – in un labirinto affascinante di situazioni mentali e immagini oniriche il cui dinamismo interiore contrasta con l’immobilità esteriore delle tre Vegliatrici, che sono gli unici personaggi in scena.

Come ricorda il poeta e critico spagnolo Ángel Crespo, da un punto di vista teatrale

 

«statico vuol dire privo di una trama e, di conseguenza, privo di un’azione e un epilogo. L’opera teatrale deve, secondo la scuola simbolista, esplorare l’intimità dello spirito umano, la qual cosa spiega il ricorso al lirismo, tanto da far scrivere ad Albert Mockel che un’opera teatrale è “la realizzazione plastica di un poema”. Da qui l’interesse di Pessoa, poeta lirico per natura, ma con aspirazioni a diventare poeta drammatico, per queste idee» [CRESPO, 1995: 263].

 

A conferma di ciò, risultano di grande interesse alcune considerazioni, manoscritte e probabilmente risalenti al 1913, da parte del poeta portoghese sull’arte moderna:

 

«Chi volesse riassumere in una parola la caratteristica principale dell’arte moderna la troverebbe, perfettamente, nella parola “sogno”. […]

«Modernamente, è avvenuta la differenziazione tra il pensiero e l’azione, tra l’idea dello sforzo e l’ideale, e tra lo stesso sforzo e la realizzazione» [rip. in QUADROS, 19942: 99].

 

Il fatto che il «mondo umano» antico, quello medievale e rinascimentale, fosse «piccolo e semplice», favoriva la messa in pratica dei sogni intensamente sognati.

 

«Non c’era la complessità del potere che chiamiamo democrazia, non c’era l’intensità di vita che dobbiamo a quel che chiamiamo industrialismo, né c’era la dispersione della vita, l’allargamento della realtà prodotto dalle scoperte e la cui conseguenza è l’imperialismo. Oggi il mondo esteriore umano possiede questa complessità triplice e orrenda […] Oggi tutto ha il suo come e il suo perché scientifico ed esatto […] Non esiste più l’arditezza: basta il coraggio fisico di un buon pugile. Perciò i più folli tentativi d’idealizzazione dei nostri aviatori ed esploratori non sono altro che ridicoli, tanto questi sono di proporzione mediocre a livello spirituale. È perché sono uomini di scienza, uomini pratici. Al contrario, i grandi uomini antichi erano uomini di sogno» [rip. in IDEM].

 

Con tali presupposti, nel momento in cui l’arte moderna è diventata «l’arte “personale”», è logico, continua Pessoa, «che il suo sviluppo [sia] in direzione di un’interiorizzazione sempre maggiore – verso il sogno crescente, sempre più verso il sogno». E ancora:

 

«La musica è essenzialmente l’arte del sogno; e lo sviluppo della musica, tutto moderno, in quel che è di valore e grande, è la composizione suprema di quanto qui andiamo teorizzando. Il poeta sognatore, in quanto sognatore, è in un certo qual modo un musicista. E per comunicare il suo sogno necessita di avvalersi “delle cose che comunicano il sogno”. La musica è una di esse.

Il poeta di sogno è in genere un visivo estetico. Il sogno rientra generalmente nella “categoria visiva”. Ha poco in comune con l’udito e il tatto. E il “quadro”, il “paesaggio” è fatto di sogno, nella sua essenza, poiché è “statico”, negatore di quel che è continuamente dinamico come è il caso del mondo esteriore. (Quanto più rapida e torbida è la vita moderna, tanto più lento, calmo e chiaro è il sogno)» [rip. in IDEM: 99-100].

 

A questo punto, se non dovessi limitarmi a un breve scritto, sarebbe estremamente interessante mettere a confronto le idee di Pessoa e quelle di Max Nordau (il celebre scrittore e saggista ungherese di origine ebrea e di cultura tedesca, positivista, anti-simbolista e anti-decadentista viscerale, che esercitò inizialmente sul poeta portoghese una sicura influenza tramite la lettura del suo libro Entartung del 1892) sui concetti di «degenerazione» e «genio», che se per Nordau non possono coincidere, poiché l’uno esclude l’altro e viceversa, al contrario per Pessoa – il quale, e non a caso, ha vissuto il dramma della decadenza tanto nel suo spirito quanto sulla sua carne, e in una duplice dimensione di morte e rinascita – i due concetti coincidono poiché «tutto il progresso si basa su una degenerazione», in virtù del fatto che la storia della cultura si realizza per mezzo di cicli successivi attraverso delle crisi che determinano, a un tempo, la fine di un mondo antico e l’inizio di un mondo nuovo.

 

(continua)

 

Bibliografia di riferimento

– BLANCO, José, 1983. Fernando Pessoa. Esboço de uma bibliografia. Imprensa Nacional-Casa da Moeda / Centro de Estudos Pessoanos, Lisboa.

– CRESPO, Ángel, 1995. El Fausto. In Idem, Con Fernando Pessoa. Huerga & Fierro editores, Madrid: 259-327.

– JÚDICE, Nuno, 1986. A era do “Orpheu”. Lisboa, Teorema.

– LANCIANI, Giulia, 2000. Identità e possessione: il Faust di Pessoa. In Marino Freschi (a cura di). La storia di Faust nelle letterature europee. Napoli, Cuen: 191-206.

– PESSOA, Fernando, 1988. Fausto. Tragédia subjectiva (Fragmentos). Estabelecimento do texto, ordenação, nota à edição e notas [di] Teresa Sobral Cunha. Prefácio [di] Eduardo Lourenço. Editorial Presença, Lisboa.

– PIZARRO, Jerónimo – FERRARI, Patrício (edição de), 2013. Eu Sou una Antologia. 136 Autores Fictícios. Fernando Pessoa. Tinta-da-china, Lisboa.

– QUADROS, António, s. d. (Introdução e organização de). Obra poética de Fernando Pessoa. Poesia I. 1902-1929. Publicações Europa-América, Lisboa.

– QUADROS, António, 1986 (Introdução, organização e notas de). Obra em Prosa de Fernando Pessoa. Escritos íntimos, cartas e páginas autobiográficas. Publicações Europa-América, Lisboa.

– QUADROS, António, 19942 (Organização, Introdução, Notas e Biobibliografia Básica Actualizada de). Obra em Prosa de Fernando Pessoa. Páginas sobre literatura e estética. Publicações Europa-América, Lisboa.

– SEABRA, José Augusto, 1982. Fernando Pessoa ou o poetodrama. Editora Perspectiva, São Paulo.

*La prima versione di questo articolo sul Faust pessoano – qui riveduto e abbreviato – comparve nel periodico letterario «Letteratura – Tradizione», incluso nello «Speciale: Pessoa (1888-1935), unicità e molteplicità» (n. 35, novembre 2005, pp. 2-19 [2-3]), da me curato e con cui la rivista pesarese intese partecipare ai solenni omaggi che un po’ dappertutto, e non solo in Portogallo, vennero tributati a Fernando Pessoa nel settantenario della morte.

Tutte le traduzioni dei testi, sia in prosa che in versi, dello stesso Pessoa e dei riferimenti critici riportati nel presente articolo sono a mia cura.

Brunello Natale De Cusatis

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