Segnalibro. Franchetti, 007 avventuriero nella calda Dancalia del Novecento

Iduna manda in libreria il diario di una epica spedizione in Africa a cavallo fra gli anni Venti e i Trenta del secolo scorso

Raimondo Franchetti

Raimondo Franchetti

Raimondo Franchetti (1889-1935) visse più vite in una davvero breve. Fu soldato di ventura, esploratore, agente segreto, uomo amato-odiato, ricchissimo rampollo di una famosa famiglia di origine ebraica convertitasi al cattolicesimo, esponente del bel mondo, antropologo, ricercatore e viaggiatore irrefrenabile pronto a percorrere in lungo e in largo tanto New York e le foreste del Canada quanto i luoghi più deserti e mai attraversati dell’Africa orientale con fucili e macchine fotografiche. Franchetti era animato dalla voglia di girare, conoscere, ma da nazionalista, anche di porre punti fermi per lo sviluppo del colonialismo italiano. Fondamentalmente imperialista, alla maniera britannica, sempre alla ricerca di confini e di pozzi petroliferi, cave di diamanti, luoghi inesplorati dove piantare la bandiera tricolore. Per la verità, era un periodo in cui il meglio dell’Africa era già occupato, spartito, diviso, sfruttato dalle potenze europee almeno dagli inizi dell’Ottocento. L’operazione di Franchetti finiva per essere solo un’iniziativa geopolitica e di spionaggio.

 

Vita borghese? No, grazie

Poteva benissimo condurre una vita bella e comoda ma questo non lo attraeva. Da collegiale era stato studente svogliato, intristito dal fallimentare rapporto fra il padre, distante e poco espansivo, e la madre (quattro mariti e tanti amanti). La morte del nonno, lui quindicenne, gli fece ereditare una ricchezza enorme e così senza alcuna preoccupazione materiale, cominciò a viaggiare. Con gli anni divenne amabile, estroverso, pieno di iniziative. Girò per l’Oriente, l’Indocina, la Cina, l’Africa. Chiamato al fronte per la Prima guerra mondiale, fu soldato semplice, poi caporale e fu proposto per una medaglia d’argento per il coraggio e l’ardimento dimostrati. Negli anni Venti, sposò Bianca Rocca, diciannovenne molto bella, della famiglia aristocratica veneziana dei Mocenigo.

La conquista dell’Etiopia da parte italiana era una grande affermazione e spezzava l’accerchiamento che le potenze come l’Impero britannico e quello francese avevano posto, nel Mediterraneo, intorno all’Italia. Franchetti preferì esplorare una zona vergine, sconosciuta, entrare nelle foreste, attraversare gli altipiani e setacciare la Dancalia, un bassopiano nel Corno d’Africa, che faceva parte dell’Impero etiopico abitato da tribù nomadi di Afar, musulmani, spesso vittime delle scorribande delle bellicose popolazioni Galla, dell’altopiano fra il porto italiano di Assab e le varie regioni abissine. Deserto estremo, con un caldo che raggiungeva i 70 gradi, depressione fino a 116 metri sotto il livello del mare, superficie ricoperta di sale e zolfo, con rari pozzi sparsi qui e là. Nel 1881, 14 italiani guidati dal geografo lombardo Giuseppe Maria Giulietti, partiti da Beilul, sul Mar Rosso, per superare la depressione dancala, sparirono senza lasciar tracce. Un’altra spedizione italiana, tre esploratori e sette indigeni, nel 1884, furono catturati e uccisi dai Dancali. Franchetti, con il suo spirito d’avventura, chiese, nel 1928, a Tafari Maconnen, futuro negus Hailè Selassié, il permesso di attraversare la Dancalia con la scusa di effettuare ricerche petrolifere. Permesso accordato e il funzionario coloniale e antropologo Alberto Pollera si occupò di scegliere il personale indigeno, i cammelli, gli acquisti necessari per l’esplorazione, le lettere ai sultani per annunciare il passaggio delle carovane ecc.

Un libro che suscitò polemiche

Rientrato in Italia nel 1929, con l’amico Amedeo Aimone Savoia d’Aosta, Franchetti divenne socio ad honorem della Società geografica italiana. Seguirono conferenze, articoli sulla stampa, proiezioni cinematografiche, pubblicazione del libro Nella Dancalia etiopica, storia della spedizione, scritta da Franchetti utilizzando in gran parte i diari dei compagni di viaggio e gli ultimi cinque capitoli facendo ricorso solo al proprio. Il libro, testimonianza interessante di quella spedizione, è ora riproposta dalla casa editrice Iduna, ed è curato dal giornalista Miska Ruggeri che ha premesso all’opera un ottimo inquadramento storico.

All’uscita del volume non mancarono le polemiche con il professor Paolo Vinassa de Regny (1871-1957) che affermò di esser stato il primo a esplorare certi luoghi della Dancalia, stroncò la parte scientifica contenuta nel testo e contestò la cartografia ricostruita nel libro. Non mancarono altre polemiche, stavolta dell’esploratore italoinglese Ludovico Nesbitt (1891-1935) che pubblicò nel 1930 il libro La Dancalia esplorata, sostenendo di essere stato il primo e unico esploratore ad aver attraversato la Dancalia.

In realtà, fu dimostrato che è vero che petrolio e bitume non furono trovati, ma furono individuate nuove specie di animali, mai registrate prima, furono effettuati importanti rilevamenti integrali della Dancalia (anche se in certi punti con qualche approssimazione), a parte poi il ritrovamento delle tombe dei componenti della spedizione italiana del 1881, prima di Dogali, e la scoperta, comprovata, di uno schiavismo dei Galla verso i Dancali.

Roberto Franchetti

Uno 007 avventuriero

Franchetti si impegnò, dal punto di vista politico e diplomatico, tornando in Etiopia dove si dedicò a tessere rapporti con ras locali, fornendo ai Ministeri delle Colonie e a quello degli Esteri, rapporti, indicazioni, pro memoria, a volte scrivendo direttamente al ministro degli Esteri Dino Grandi. Sottolineò la necessità di una politica estera più determinata, chiara, visto che i ras non sempre comprendevano la posizione dell’Italia, contrariamente a quella del Regno Unito. Risultato: si attirò le inimicizie di diplomatici e funzionari italiani e il sospetto dei ras etiopici. Sollecitò la realizzazione di un “Ufficio Etiopia” a Palazzo Chigi, allora sede del Ministero degli Esteri, nel quale istituire un gruppo di agenti segreti per l’Italia fascista. Franchetti non era fascista, nulla a che vedere con divise, ordine, gerarchia, partito ecc. Ma era ammiratore del Duce, che incontrò più volte, ed era apprezzato da Mussolini che vedeva in lui il prototipo dell’uomo nuovo, quello propagandato dal fascismo movimento e poi dal fascismo regime. Franchetti scrisse due articoli pieni di critiche alla diplomazia italiana in Africa, pubblicati sul “Popolo d’Italia”. Nel 1933 la Società geografica propose una spedizione, per effettuare rilievi geografici in Dancalia, guidata da Franchetti ma il Ministero bloccò l’operazione. Intanto, lui era già stato in missione segreta ad Addis Abeba per parlare con Hailè Selassiè il quale sospettò un coinvolgimento dell’emissario italiano nell’attentato fallito contro di sé per rimettere sul trono etiopico Ligg Iasù, nipote del famoso Menelik. L’agente italiano non ottenne nulla, solo l’ostilità del conte Vinci Gigliucci che chiese espressamente a Mussolini di richiamare Franchetti in Italia e proibirgli ogni iniziativa. Troppi nemici. Alla fine di luglio del 1935 Franchetti tornò a Roma, lasciò al Ministero un’ampia relazione e cercò di ripartire quanto prima per Beilul, in Etiopia. Il 6 agosto partì da Guidonia un trimotore militare Savoia Marchetti S. 81, con a bordo Franchetti, l’equipaggio e Vincenzo Minasi, il segretario del ministro dei Lavori pubblici Razza. Dopo una sosta a Taranto, per rifornimenti, raggiunsero Heliopolis, sobborgo del Cairo. La mattina dopo, alle 5,20, ripartirono per l’Etiopia in una giornata limpida e condizioni meteo favorevoli.

La fine

La sera del 7 agosto l’aereo venne dato per disperso, non si avevano più notizie. Non era atterrato né a Massaua, dove doveva fare tappa, né ad Asmara. L’8 agosto vari aerei civili decollarono alla ricerca del velivolo e individuarono i rottami e i corpi senza vita a pochi chilometri da Heliopolis. L’aereo era caduto dopo poco tempo dal decollo. Il 19 agosto i corpi delle vittime furono trasportati in Italia con l’incrociatore “Diaz” mentre le spoglie di Franchetti furono sepolte, secondo le sue volontà, ad Assab. L’ipotesi? Un attentato, ma mancavano le prove. Anche i giornali inglesi sostennero questa ipotesi. Molti gli interrogativi: perché l’allarme fu lanciato così tardi? Perché tanto tempo per trovare i resti dell’aereo che erano a pochi chilometri dall’aeroporto di partenza? Esplosione in volo o schianto del velivolo? Era possibile un guasto visto che il motore era stato revisionato poche settimane prima? Perché non fu aperta un’inchiesta? Mistero mai risolto.

*Nella Dancalia etiopica, di Raimondo Franchetti, Iduna ed., pagg. 432, euro 25,00. (A cura di Miska Ruggeri)

 

Manlio Triggiani

Manlio Triggiani su Barbadillo.it

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