La memoria è la musa ispiratrice nella poetica di David Mourão-Ferreira

A 25 anni dalla scomparsa, un ricordo dell'opera del grande genio poliedrico della letteratura portoghese

«Non appena iniziò il segreto viaggio,

un dio mi rivelò che non sarei andato da solo.

Perciò a ogni volto i sensi reagiscono, 

pensando che sia la luce da quel dio rivelatami.»

(David Mourão-Ferreira, Iscrizione sulle onde)

 

Quest’anno ricorre il venticinquesimo anniversario della morte di David Mourão-Ferreira. Con questo mio breve articolo desidero omaggiare un carissimo amico e una straordinaria figura delle letterature lusofone.

 

L’opera di David Mourão-Ferreira (Lisbona, 24.02.1927–16.06.1996), tradotta in più lingue, consta di numerose pubblicazioni sia in prosa che in versi. Difatti, oltre a essere tra i maggiori poeti portoghesi contemporanei, con diciassette libri di versi pubblicati tra il 1950 e il 1994, David è romanziere, novellista, drammaturgo, paroliere di fados, cronista e critico letterario. Quindi, un autore assolutamente poliedrico.

Forse nei versi di nessun altro poeta della sua generazione si rinviene un autobiografismo così accentuato come nei suoi, nel senso di essersi David Mourão-Ferreira accostato all’esperienza poetica – e, più in generale, a quella artistico-letteraria – in modo realistico, ossia, senza farne una pura ed esclusiva questione metafisica. Ciò risulta ancor più evidente con riferimento al tema amoroso.

In un’intervista, una delle tante che ha rilasciato, David afferma:

 

«l’amore in letteratura è naturalmente un’espressione verbale dell’amore tale e quale come si vive, tale e quale come si sente, tale e quale come s’immagina.» (rip. in FONTECCHIO, s. d.: XLV).

 

Ebbene premettere come all’interno della sua poesia, o meglio delle sue riflessioni poetiche, David Mourão-Ferreira “impersoni” il ruolo sia dell’amante che dell’amato. Ciò gli consente di allontanarsi da tutto quel che potrebbe essere inteso come un qualcosa di perturbatore, eretico, nonché di dongiovannesco – nell’accezione di misogino, ossia, di avversione nei confronti delle donne. In altre parole, la ricerca ossessiva della donna da parte di David, nella sua opera, non rappresenta assolutamente un’avversione dell’Io verso l’altro sesso (1); al contrario, denota l’importanza vitale della figura femminile per la sua stessa esistenza (quella del Poeta). Una ricerca che si connota anche di un certo “dandismo” – nel senso positivo del termine: tratti eleganti, galanti e mondani di una personalità che gradisce, in fondo, avventurarsi in amori fatali. Sono amori portatori, non solo di mere soddisfazioni sensuali, ma anche di rivelazioni sul modo di come David realmente sia e, di conseguenza, di come concepisca il mondo, con l’intento, per così dire, di impartire una lezione tanto ai puritani quanto ai libertini: ai puritani perché reputano l’erotismo indegno di “farsi letteratura”; ai libertini perché, accecati dal loro amoralismo, colgono nella poesia erotica un pretesto per legittimarlo.

In sostanza, possiamo ritenere l’Amore cantato da David un amore dei nostri tempi. In un certo qual modo dionisiaco, improntato a esaltazione sia spirituale che fisica, ma privo di eccessiva sregolatezza. Se è questo il tipo di amore che prevale nella poesia davidiana, tra le righe non è difficile cogliere anche “residui” di tradizioni passate. Ciò perché alcuni legami amorosi sono ritenuti da David Mourão-Ferreira come delle “costrizioni” indispensabili al fine di tenere strettamente legate l’arte di amare e l’arte di far poesia.

Tutto questo fa sì che convivano, all’interno delle riflessioni amorose del nostro Poeta, due tipi di amore: quello “cristiano” e quello “pagano”, in una sorta di sincretismo, in cui, tuttavia, l’elemento pagano prevale sull’elemento cristiano. Tale fusione o scambio vicendevole tra i due tipi di amore in David agisce positivamente, nel senso che si pone quale forza liberatrice sull’Ego poetico, il quale, senza l’attenuazione dell’elemento cristiano e solo dedito o meglio condizionato da Eros, finirebbe per confondersi, impazzire e così giungere a conclusioni estreme, eccessivamente rischiose.

Chiaramente, oltre al senso dell’Amore, cui si associa anche quello della Morte, di Thanatos, esistono altre precipue coordinate nella poesia di David Mourão-Ferreira.

Diciamo subito come la costante amorosa – e qui faccio un discorso generale, vale a dire, un riferimento che va ben oltre i versi davidiani e che interessa l’universo poetico – implichi, senz’ombra di dubbio, la presenza quantomeno di due altri elementi: la Memoria e il Tempo, tra di essi strettamente collegati, poiché ricordare vuol dire riproporre nella mente immagini e sensazioni appartenenti a un tempo trascorso.

Pertanto, Amore, Memoria e Tempo sono in David, ma potremmo dire in quasi tutti i poeti e gli scrittori in genere, tre coordinate indiscutibili. Per quanto concerne il caso specifico della poesia davidiana se ne ha una conferma immediata nella prima raccolta di versi, pubblicata nel 1950, A Secreta Viagem (Il Segreto Viaggio), il cui titolo già ci fornisce una precisa indicazione in tal senso, poiché in essa il Poeta chiaramente discorre non su un viaggio fisico, se non in minima parte, ma su un viaggio interiore, psichico, in cui, per l’appunto, il Tempo e la Memoria svolgono un ruolo di primissimo piano.

Intanto, esiste un altro elemento importantissimo nella poesia davidiana e che non di rado fa da supporto agli altri tre: l’elemento Sogno.

Sappiamo come la psicanalisi moderna insegni che l’esperienza onirica e il processo psicologico a essa legato spesso incidano sui comportamenti umani. Quanto al nostro Poeta, tale esperienza onirica viene a essere una vera e propria fonte d’ispirazione di molte sue poesie. Ciò è perfettamente comprensibile, poiché i sogni, fin dall’Antichità, sono sempre stati ritenuti fonti di materiale simbolico. Fino a qualche secolo fa – ma potremmo dire anche oggi! – si è creduto all’esistenza di sogni premonitori o, più specificatamente, se pensiamo, ad esempio, alla Bibbia, a un’autentica divinazione per il tramite dei sogni sia di fatti generici e lontani, sia di fatti concreti e immediati.

Ritornando al nostro Poeta, e avendo stabilito che l’elemento amoroso si serve quanto meno di altri tre elementi interconnessi, cercherò di sviluppare, in modo ovviamente succinto, un discorso lineare che abbia come approdo finale quella Memoria annunciata nel titolo di questo mio articolo, vera “musa ispiratrice” della poetica davidiana.

Iniziamo dal Tempo che è un elemento d’importanza primordiale, non solo della poesia e della letteratura in genere, ma anche di tutta la riflessione scientifica e filosofica. Tuttavia, tale elemento temporale è sviluppato da David senza condizionamenti esteriori, vale a dire, in modo semplice e in assenza di legami a schemi codificati, a correnti filosofiche ed esistenziali determinate, essenzialmente supportato, pertanto, da rielaborazioni personali.

Così come occorre per l’Amore, anche per quanto concerne il Tempo, nel nostro Poeta sono presenti due tradizioni, quella “pagana” e quella “cristiana”, con prevalenza di quest’ultima. Per la tradizione pagana, greca in particolare, il Tempo era visto come un qualcosa di onnipotente, padrone del destino umano. David di questa tradizione respinge assolutamente l’onnipotenza del Tempo; non ritiene Kronos padre di tutto e, quindi, anche del destino dell’uomo. Di tale tradizione egli accetta soltanto la concezione del Tempo quale misura mutevole che si basa sulla ritmica successione delle fasi della Natura: secoli, anni, stagioni, ecc. Così facendo, il nostro Poeta fa sua la tradizione orfica dell’”eterno ritorno”, nel senso più ampio del termine, ovvero, l’attesa fiduciosa del ritorno della sua amata – un ritorno, ovviamente, non fisico – conscio di poter infrangere la barriera temporale e, di conseguenza, in un certo qual modo, le tenebre che da lei lo separano, per il tramite della Poesia. Proprio grazie a tale speranza è che il suo spirito si mantiene vivo, riuscendo ad allontanare da sé, o quantomeno ad attenuare, lo sconforto. Quanto poi alla tradizione filosofica cristiana, David la fa sua nel momento in cui adotta un tempo “lineare progressivo” che consente all’uomo, una volta riscattatosi, di approdare al trionfo dell’Eternità spirituale, in cui David crede assolutamente.

Ciò premesso, possiamo affermare che nella poesia davidiana esistono due tipi di Tempo: un Tempo “spaziale” e un Tempo “psicologico”. Quanto al primo tipo, lo spazio in questione è uno spazio essenzialmente geografico, per l’esattezza, “ibero-mediterraneo”, che viene utilizzato spesso, tuttavia, sotto forma di metafora per descrivere il corpo della donna e i suoi movimenti – in tal senso, potremmo definirlo uno spazio “mistico / idealistico”, al cui interno ruotano due corpi protesi alla reciproca conoscenza e attorno ai quali si muovono spazi fittizi, elaborazioni mentali di realtà varie. Al contrario, quanto al Tempo “psicologico”, esso è sempre presente in quei momenti in cui il Poeta elabora sogni e ricordi così da creare un ponte solido tra Passato, Presente e Futuro.

Pertanto, in David esiste una commistione di tempi che possiamo, semplificando il tutto, far confluire nel concetto di “tempo narrativo”, la cui caratteristica principale è la presenza quasi costante di flashbacks, per il tramite, appunto, di sogni, fantasticherie che generano e riproducono molteplici Memorie. Memorie la cui presenza e azione servono a formare l’Io poetico, irrobustendolo, dandogli una forte identità, in modo da salvarlo da un’esistenza amorfa. A tale riguardo, David afferma:

 

«Senza memoria noi non siamo nulla. La nostra anima e il nostro essere sociale non hanno alcuna consistenza senza memoria. Tutto parte dalla memoria, e io credo che una delle cause di certe crisi contemporanee provengano dalla mancanza di memoria e dalla mancanza di esercizio della stessa.» (rip. in IDEM: XXXIII).

 

Inoltre, la Memoria rappresenta per l’Uomo anche un meccanismo di difesa per gli eventi futuri. Tale fiducia estrema che il nostro Poeta ripone nella Memoria – ricordo come, nel 1962, la celebrò nel poema In Memoriam Memoriae (cfr. MOURÃO-FERREIRA, 1988: 181-192) – fa sì che essa diventi una delle sue Muse ispiratrici, di certo la principale, e non solo per la sua azione stimolante, atta a sviluppare l’intelletto, ma anche perché è un elemento costitutivo della stessa creazione verbale. Pertanto, un insieme di incentivi a livello poetico che hanno per base sia le esperienze di vita quotidiana, sia singoli oggetti e immagini. Il tutto volto a risvegliare nell’Io poetico quel che gli psicologi solitamente chiamano «memoria episodica», ma che David definisce, proustianamente, «memoria involontaria», prediligendola a quella “volontaria”.

A questo proposito, ecco quel che lo stesso David Mourão-Ferreira ha affermato in occasione di un’intervista concessa nel maggio del 1992 a una mia alunna e successivamente riprodotta nella sua tesi di laurea:

 

«Credo molto nella tematica della “memoria involontaria”; non voglio dire che noi non possiamo anche volontariamente ricordare qualcosa, ma è una memoria differente, una memoria molto più fredda, molto meno partecipativa della “memoria involontaria”. Camminare per una via e vedere un volto che ci fa ricordare una persona conosciuta, d’immediato e totalmente ci trasporta verso un determinato passato. E, di conseguenza, la memoria inizia a ricreare e a inventare, poiché essa è anche invenzione e immaginazione. Molte delle cose che ho scritto, in versi come in prosa, nascono da quelle combinazioni, da quelle circostanze in cui la memoria viene inaspettatamente sollecitata e così messa alla prova.» (rip. in IDEM: XXXIV-XXXV).

 

Numerose sono ovviamente le poesie davidiane ispirate dalla Memoria. Da tale insieme ne ho scelte due da commentare.

 

La prima poesia appartiene alla raccolta – la seconda in ordine cronologico – Tempestade de Verão (Temporale estivo), pubblicata nel 1954 (cfr. MOURÃO-FERREIRA, 1988: 49-83):

 

SONETO AMARGO DE CONVÍVIO HUMANO

 

A pouco se reduz esta aventura:

rio sombrio de palavras feito,

onde cada garganta é um parapeito

sobre o líquido engano que murmura…

 

De pedra, de silêncio e hostilidade,

somos estátuas verdes mas esquivas.

Odiar? Amar? – Apenas tentativas

falhadas nas esquinas da saudade.

 

E já nenhuma esp’rança nos consegue

manter o morto corpo desatento:

somente partilhamos o tormento

a que vai cada um de nós entregue.

 

Que no entanto o rio nos iluda,

com sua eterna melopeia aguda. (IDEM: 56).

 

SONETTO AMARO DI CONVIVENZA UMANA // A poco si riduce quest’avventura: / fiume cupo fatto di parole, / dove ogni gola è un parapetto / sul liquido inganno che mormora… // Di pietra, di silenzio e ostilità, / siamo statue verdi ma ritrose. / Odiare? Amare? – Solo tentativi / falliti agli angoli del rimpianto. // Oramai nessuna speranza riesce / a sostenerci il morto corpo disattento: / soltanto condividiamo il tormento / al quale ciascuno di noi s’abbandona. // Nel frattempo ci illuda pure il fiume, / con la sua eterna melopea acuta.»].

 

Come si può notare, non è un sonetto nella sua forma più tipica e tradizionale, ossia, due quartine più due terzine, ma si compone di tre quartine a rima incrociata, diversa per ogni strofa, più un distico a rima baciata (2). Dedicata a Teixeira de Pascoaes, morto nel 1952, l’anno della sua composizione, è questa una poesia di natura amorosa e memorialistica a un tempo. Parla di una relazione oramai giunta alla fine, con il fiume che simboleggia la Memoria (prima quartina); una relazione fatta solo di tentativi, però tutti falliti (seconda quartina); e senza alcuna speranza di poterla ravvivare, anche dal punto di vista fisico, corporale (terza quartina) e che si regge su una mera illusione (il distico): quella che il fiume – il fiume della Memoria, appunto – possa con le sue melodie («eterna melopea») riempire i cuori dei due amanti di armonia e felicità.

 

La seconda poesia fa parte della raccolta – la terza in ordine cronologico – Os Quatro Cantos do Tempo (I Quattro Canti del Tempo), pubblicata nel 1958 a Rio de Janeiro (cfr. IDEM: 85-149):

 

ESTRADA, DE NOITE

 

Ponho as mãos no volante e nem as vejo:

todo eu vou separado deste esforço.

Cem faces de saudade e de remorso

levantam-se da estrada… No meu dorso,

cem facas as reflectem como um espelho.

 

Vai o volante, só, no meio disto.

As mãos, porém não esquecem, quando esqueço

que, por sobreviver, foi este o preço.

Por entre o nevoeiro mais espesso

volante e mãos conduzem-me ao destino.

 

Sonho que vão ficando lapidadas

no vidro dos faróis as borboletas

que entre as asas luziam faces pretas

de saudade, remorso… Tão inquietas!

Serão agora sombras… quase nada!

 

Mas as facas reflectem vultos vivos

sobre o volante que dos olhos voa.

E o peso do passado se amontoa

– tão depressa uma corda ou uma coroa –

nestes pulsos convulsos e cativos! (IDEM: 117-118).

 

[STRADA, DI NOTTE // Poso le mani sul volante e né le vedo: / tutto il mio io è separato da questo sforzo. / Centinaia di volti di rimpianto e rimorso / si alzano dalla strada… Sul mio dorso, / centinaia di coltelli li riflettono come uno specchio. // Il volante va, da solo, nel mezzo di questo. / Le mani, però, non scordano, quando scordo / che, per sopravvivere, il prezzo è stato questo. / Dentro la nebbia più fitta / volante e mani mi conducono al mio destino. // Sogno che vengono lapidate / sul vetro dei fari le farfalle / che tra le ali riflettono alla luce volti scuri / di rimpianto, rimorso… Così inquieti! / Saranno ora ombre… quasi nulla! // Ma i coltelli riflettono volti vivi / sul volante che dagli occhi vola. / E il peso del passato s’accumula / – così velocemente una corda o una corona – / su questi polsi convulsi e prigionieri!»].

 

Sono dell’idea che per comprendere questa poesia occorra partire dal titolo, premonitore – come sempre accade con quasi tutti i titoli delle poesie davidiane – e che anticipa quel che verrà riferito nei versi: la «strada» simboleggia l’esistenza dell’Io poetico; quanto alla «notte», il termine qui non possiede un’accezione del tutto negativa. Questo perché la notte è il periodo della giornata che suggerisce riflessioni, ripensamenti, oltre, com’è ovvio, a essere il periodo in cui l’individuo maggiormente riposa.

Quale è “in superficie” il significato di questa poesia o, per meglio dire, quale è la descrizione reale che trasmette? Quella di un uomo – il Poeta – che di notte in macchina percorre una strada e, come spesso accade quando si è soli al volante e, per giunta, di notte, il guidatore quasi si estrania e va con la mente vagabondando; inizia a riflettere, a volte, su cose futili o di poco conto, altre, su cose importanti. Credo che per chi guida questa sia un’esperienza molto comune…

Il Poeta descrive uno di questi momenti da lui vissuti: seduto in macchina, entra in funzione la Memoria (prima strofa: 1° e 2° verso) e, mentre guida, vede sorgere davanti a sé il passato, fatto, a un tempo, di «rimpianto e rimorso» (3° e 4° verso), e da lui visto alla stregua di «coltelli» (5° verso), ossia, di ferite. Da notare come in questa poesia Tempo, Memoria e Sogno si saldino. Il Tempo, proprio perché associato alla Memoria e al Sogno, viene inteso al pari di una misura mutevole che (seconda strofa), mosso dal «volante» e dalle «mani» dell’Io (1° e 2° verso), guida questo stesso Io in direzione del proprio «destino» (5° verso), un destino che attraversa «la nebbia più fitta» (4° verso), ovvero, zone buie e su cui (ultime due strofe) grava, bene o male, un passato fatto di luci e ombre, di «rimpianto» e «rimorso» (terza strofa: ultimi tre versi); un passato che “s’incarna”, a volte, in modo assolutamente non chiaro, «quasi nulla» (5° verso), altre, molto chiaramente, in «volti vivi» (quarta strofa: 1° verso) che hanno fatto parte dell’esistenza del Poeta (recita, difatti, il 3° verso, sempre dell’ultima strofa: «il peso del passato s’accumula») – esistenza vissuta (4° verso) in modo triste o felice («corda» equivale ai momenti tristi, infelici; «corona», al contrario, ai momenti gaudiosi e felici) e che gravano (ultimo verso) sui suoi «polsi convulsi e prigionieri», vale a dire, sulla sua personalità.

Credo che i versi di questa poesia siano alquanto emblematici, poiché rivelatori di una indiscutibile particolarità quanto alle fonti d’ispirazione di David Mourão-Ferreira, con la Memoria che prevale sulle altre. Il tutto in un “amalgama” che rende la poetica davidiana in qualche modo unica nel panorama della letteratura portoghese contemporanea.

 

Note

(1) Che è il caso, per certi versi, di Don Giovanni, nome del personaggio del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina, e, più tardi, di altri drammi in prosa e in musica, fino all’opera di Mozart.

(2) Ricordo come questa sia la forma “primitiva” del sonetto, il cui ideatore dovrebbe essere stato Giacomo o Jacopo da Lentini (1210-1260), tra i principali esponenti della Scuola siciliana.

 

Bibliografia di riferimento

– FONTECCHIO, Giulia, s. d. «David Mourão-Ferreira: l’avventura di un alchimista occidentale e le sue “revêrie” poetiche». Tesi di laurea, Anno Accademico 1992-1993, Relatore Prof. Brunello Natale De Cusatis. Perugia. Università degli Studi di Perugia – Facoltà di Lettere e Filosofia, s. d.: 157 pp. e LVI pp. [Appendice: «Entrevista com David Mourão-Ferreira (Roma, 23 e 24 Maio 1992)»].

– MOURÃO-FERREIRA, David, 1988. Obra Poética. 1948-1988. Introdução de Eduardo Prado Coelho. Editorial Presença, Lisboa.

 

[Questo articolo – qui abbastanza rielaborato – è stato per la prima volta pubblicato in portoghese nella rivista cartacea «Nova Águia – Revista de Cultura para o Século XXI» (Sintra – Portogallo), N. 18 – 2° Semestre 2016, pp. 125-129.

Tutte le traduzioni dal portoghese dei testi, sia in versi che in prosa, sono a mia cura].

 

Brunello Natale De Cusatis

Brunello Natale De Cusatis su Barbadillo.it

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