Diversità e confronto di generazioni nella novellistica di Mário Cláudio

Focus sulla Trilogia degli Affetti di uno dei maggiori esponenti della letteratura lusitana contemporanea

Mário Cláudio – pseudonimo di Rui Manuel Pinto Barbot Costa, nato a Oporto il 6 novembre 1941 – fa parte di quel novero di esponenti insigni delle letterature d’espressione portoghese che hanno raggiunto la notorietà internazionale con opere tradotte in inglese, spagnolo, francese, tedesco, ungherese, ceco, croato e italiano [cfr. CLÁUDIO, 20151].

Quel che caratterizza maggiormente la sua narrativa è di certo l’essere marcata, a livello di genere, dal numero tre in funzione di trilogia (1). Questo spiega perché più o meno un terzo della sua vasta produzione appunto narrativa – fino a oggi, trenta e più titoli, tra romanzi, novelle e raccolte di racconti – sia formata da quattro trilogie, ossia, dodici titoli in totale. Di questi, nove sono romanzi, riuniti nelle tre trilogie, così come sono state designate dalla critica portoghese, «della Mano» (1984-1988), «dell’Albero» (1990-1997) e «delle Costellazioni» (2000-2004). I restanti tre titoli rappresentano delle novelle (2008-2015), che formano un insieme designato per la prima volta dalla studiosa marioclaudiana Carla Sofia Luís, in occasione del “Colóquio Internacional. Vida e Obra de Mário Cláudio”, realizzato a Covilhã, presso l’Università della Beira Interior, come «Trilogia degli Affetti». In quella stessa occasione, io stesso ho proposto per tale insieme di novelle il titolo di «Trilogia delle Generazioni» [cfr. LUÍS e LUÍS, 2018: 127, nota 68].

A questo punto, vorrei aprire una breve parentesi circa l’importanza e il significato del numero tre in funzione di trilogia nell’opera narrativa di Mário Cláudio.

La critica marioclaudiana ha spesso sottolineato come, nonostante ogni romanzo costituisca un’unità narrativa autonoma, le prime tre trilogie abbiano dei denominatori comuni, con riferimento non solo a ciascuna trilogia, ma anche al loro insieme, riportandosi tutte, difatti, all’Identità che caratterizza il Portogallo del presente e del passato, nei suoi aspetti positivi e negativi.

Al contrario, quanto alla quarta trilogia, quella costituita da novelle, anch’esse autonome con riferimento al profilo narrativo, possiede come unico denominatore comune il fatto di mettere a confronto figure di età differenti e distanti, non reali, è il caso di Boa Noite, Senhor Soares (Buona notte, signor Soares) [cfr. CLÁUDIO 2008 e 20151] oppure figure che realmente sono esistite, come occorre con Retrato de Rapaz (Ritratto di ragazzo) [cfr. CLÁUDIO, 2014] e O Fotografo e a Rapariga (Il fotografo e la fanciulla) [cfr. CLÁUDIO, 20152]. Queste tre novelle non hanno nulla a che vedere con l’Identità presente e passata del Portogallo. Peraltro, i personaggi e i luoghi in cui decorrono le azioni della seconda e terza novella sono, rispettivamente, italiani e inglesi.

Partendo da tali considerazioni mi sembra chiaro come il ricorso al numero tre in funzione appunto di trilogia assuma in Mário Cláudio una valenza particolare all’interno del suo profilo letterario.

L’Autore non ha mai fornito, quantomeno esplicitamente, nel corso delle varie interviste da lui concesse, la ragione o le ragioni che sono alla base di tale sua scelta letteraria. Non possiamo di certo accontentarci di alcune sue affermazioni, nelle quali ha confessato un «fascino irresistibile» nei confronti del numero tre, o quando ha dichiarato che i numeri pari gli causano «irritazione». Non v’è dubbio che sono state delle risposte, a precise domande postegli circa l’utilizzo nella sua opera del numero tre in funzione di trilogia, volutamente “vaghe”.

In una lunga e interessante intervista inserita nel volume collettivo Mário Cláudio e a Portugalidade (2015), realizzata nel settembre del 2013 da Anabela Rita, Carla Sofia Luís e Miguel Real, possiamo leggere la risposta fornita da parte dell’Autore alla domanda fattagli circa la funzione dei simboli nella sua opera:

 

«Ogni simbolo invita a una lettura ben precisa, e che si ritrova nelle voci dei rispettivi dizionari, esistenti proprio per fornirci dei chiarimenti a tale riguardo. Spetta a ognuno di noi, quando si ha la capacità di farlo, declinare lo spettro dei significati che siamo andati secernendo nell’opera. Ma il compito di interpretarli non potrà spettare ai creatori, poiché si rischierebbe di esaurire la sorgente della linfa che feconda tutta la trasformazione» [rip. in RITA, 2015: 32].

 

Per quanto mi riguarda, sono dell’dea che la spiegazione del ricorso nella narrativa di Mário Cláudio al numero tre in funzione di trilogia sia da rintracciare principalmente nel suo profondo interesse per il sacro, il trascendente, cui s’accompagna una vasta cultura caratterizzata anche da conoscenze cabalistiche e filosofico-religiose orientali.

Pur se questo tema è di grande interesse, non potrò qui approfondirlo per problemi di spazio. Quindi, chiudo la parentesi e ritorno all’argomento centrale di questo mio articolo, ossia, alla diversità e al confronto di generazioni nelle tre novelle marioclaudiane: Buona notte, signor Soares, Ritratto di ragazzo e Il fotografo e la fanciulla.

Il riferimento a “generazione” o “generazioni” può far pensare che queste tre novelle si riportino al cosiddetto “romanzo generazionale”, un sottogenere di romanzo nato nel corso della seconda metà del Settecento. Le sue principali caratteristiche sono essenzialmente due, entrambe legate al modo di porgersi o presentarsi del protagonista, che è sempre una persona giovane, un ragazzo o una ragazza:

1) il ricorso alla confessione, qualunque sia la tecnica narrativa utilizzata nello scrivere il romanzo;

2) il rifiuto del conformismo che la maturità comporta, poiché ritenuta colpevole, tale maturità o formazione, di distorcere la lettura della realtà, di annebbiare la capacità di vedere il mondo circostante in modo naturale e disincantato (2).

Quanto alle tre novelle di Mário Cláudio che compongono la «Trilogia degli Affetti» o «delle Generazioni», nessuna di esse presenta delle caratteristiche effettive che contraddistinguono il cosiddetto “romanzo generazionale”.

Stabilita tale differenziazione, andiamo, adesso, ad analizzare – per sommi capi, ovviamente – la caratterizzazione, in termini “generazionali”, dei protagonisti delle singole novelle, il cui unico denominatore comune è la messa a confronto di figure di età differenti, un adulto e un giovane che hanno una relazione.

Quanto alla prima novella, Buona notte, signor Soares, editata nel 2008, la ritengo un esempio tra i più eccelsi dei vari meccanismi dell’arte e della tecnica di scrittura che caratterizzano l’intera narrativa biografica marioclaudiana.

Fondamentalmente essa è una “rivisitazione” del semi-eteronimo pessoano Bernardo Soares, il cui testo presenta alcuni chiari e ben definiti riferimenti al Libro dell’inquietudine [cfr. DE CUSATIS, 2015: 96-101]. Rivisitazione che occorre per il tramite di una tessitura evocativa e polifonica, con il rimando al concetto di intertestualità, e di un processo creativo tipico nella narrativa appunto biografica di Mário Cláudio: biografare intersecando due “vite”. Nella fattispecie, la vita del coprotagonista Pessoa/Soares – che l’autore-demiurgo Mário Cláudio, caratterizzandola alla sua maniera e umanizzandola, rende più complessa e ricca – e la vita del protagonista, António da Silva Felício – la cui figura, all’interno della struttura narrativa della novella, risulta, per così dire, meno “irreale” di quella di Soares. António, già «apprendista commesso» nello stesso magazzino di tessuti in cui Bernardo Soares ricopriva l’incarico di traduttore di lettere commerciali, a distanza di cinquant’anni e per il tramite di un «autore più o meno rispettato» – dietro il quale s’occulta lo stesso Mário Cláudio –, decide di raccontarsi e raccontare in primis la sua relazione proprio con Soares e la forma di come essa si snodò [cfr. CLÁUDIO, 20151: 138-139]. Una relazione in cui emerge in modo chiaro la grande considerazione da parte del giovane António nei confronti dell’attempato Bernardo Soares e che – grazie anche a una certa forma di empatia tra i due, entrambi “sognatori viaggianti”, impregnati di umanità e tenerezza – si trasformerà presto tanto in emulazione quanto in un sentimento di vero affetto che il «signor Soares» finirà per ricambiare, come attestano alcuni passaggi della novella. È il caso, ad esempio, del passaggio in cui i due si salutano per l’ultima volta:

 

«Il signor Soares aprì le braccia magrissime, un po’ tremule – a causa, pensai, dell’eccessivo consumo di caffè, tabacco e acquavite –, e m’abbandonai in esse come se mi precipitassi verso la salvezza. Avvertii il singhiozzo che gli fece vibrare il petto e lo sentii mormorare, con voce bassissima e vicino al mio orecchio, “Arrivederci, António”. Non so dire se fu lui a liberarsi per primo o se fui io a staccarmi dall’abbraccio. Ancora oggi, però, ascolto la voce molto ferma, la mia o quella dell’uomo che in me era nato, articolare, nonostante le lacrime mi contraessero la gola, “Buona notte, signor Soares”» [IBIDEM: 135].

 

Diversamente da Buona notte, signor Soares, i protagonisti delle altre due novelle, Ritratto di ragazzo, del 2014, e Il fotografo e la fanciulla, del 2015, sono realmente esistiti e non sono portoghesi, ma sono, così come i luoghi in cui agiscono, rispettivamente, italiani e inglesi.

Con riferimento a Ritratto di ragazzo trattasi di una novella che descrive la relazione di Leonardo da Vinci con Gian Giacomo Caprotti, detto il Salai, suo discepolo prediletto e che entrò come garzone nella sua bottega di Milano, nel 1490, all’età di dieci anni. Fu lo stesso Leonardo ad annotare tale dato sul primo foglio del «Manoscritto C», oggi conservato a Parigi presso l’Institut de France. Un importantissimo manoscritto o Codice che raccoglie, non solo vari appunti sulle poliedriche attività del grande maestro toscano – soprattutto, quanto all’importanza del «variare della forma in relazione ai rapporti di luce e ombra» [PEDRETTI e CIANCHI, 1995: 24-25 (24)] – ma anche annotazioni relative alla sua vita quotidiana e, in particolare, sempre sul primo foglio, alle malefatte compiute dal giovane Gian Giacomo, quale quella di avergli rubato dei soldi il giorno dopo il suo arrivo in bottega [cfr. NARDINI, 2018: 79]. Leonardo stesso lo ribattezzò Salai – da un verso del Morgante, un poema della seconda metà del Quattrocento, opera di un altro toscano, Luigi Pulci – poiché salah in lingua araba significa «diavolo», «irrequieto», «infedele». Difatti, «ladro», «bugiardo», «ostinato», «ghiotto» sono gli epiteti utilizzati da Leonardo nei confronti di Gian Giacomo [cfr. SETTIMINI, 2019], e riportati ancora una volta sul margine del primo foglio del succitato Codice.  Ciononostante, il Maestro fu sempre indulgente nei confronti del suo allievo, sedotto dalle sue espressioni, dalla sua straordinaria bellezza angelicale e ambigua natura. Tant’è che, giorno dopo giorno, Salai da ragazzo di bottega avrebbe conquistato la fiducia, il bene e l’amore di Leonardo, diventando prima suo modello, poi il suo discepolo prediletto, e accompagnandolo in tutti i suoi cambi di residenza, fino più o meno al 1514. Da Milano a Venezia, successivamente a Firenze, quindi di nuovo a Milano e infine a Roma. Una stretta convivenza durata oltre vent’anni e interrottasi – non se ne conoscono le vere ragioni – un paio d’anni prima che Leonardo partisse per Amboise, ospite del sovrano francese Francesco I. Allorquando la salute del Maestro si aggravò, Gian Giacomo si precipitò in Francia. Tuttavia, non fu presente il giorno della sua morte (2 maggio 1519) e neppure il giorno del suo testamento (23 aprile 1519). Nominato comunque tra gli eredi, Salai rientrò a Milano lo stesso anno, forse portandosi dietro alcuni dipinti del Maestro. Ricevette in eredità solo la metà della vigna in Porta Vercellina, a Milano, dove la famiglia Caprotti viveva da almeno vent’anni. Morì, probabilmente a causa di un colpo di archibugio, il 19 gennaio 1524.

Tutto quello che ho appena riassunto in riferimento alle vite di Gian Giacomo Caprotti e Leonardo da Vinci – queste vite raccontate in parallelo a partire dal 22 luglio 1490, allorquando Salai entrò da garzone nella bottega di Milano del grande maestro toscano – è riprodotto nel testo di Mário Cláudio, il quale, oltre ad aver avuto l’opportunità di consultare tanto il «Manoscritto C» quanto gli altri Codici di Leonardo da Vinci, conosce come pochi quel che si è andato pubblicando riguardo allo stesso Leonardo nel corso dei secoli. Tutto ciò è rielaborato e spalmato nelle 130 pagine, più o meno, di cui si compone la novella, sia con un perfetto dosaggio tra la fedeltà alle fonti e l’immaginazione, sia con il solito affascinante e personalissimo processo creativo d’una narrativa che si muove all’interno di un percorso “multiplo”; eppure, splendidamente unificato nell’immaginario e nella scrittura, assolutamente “identitaria”, dell’Autore. Senza dimenticare l’enorme delicatezza – supportata dall’eleganza e da una profonda erudizione – di come Mário Cláudio tratti un aspetto, a un tempo, fondamentale, controverso e scabroso, della vita di Leonardo da Vinci, vale a dire, la sua inclinazione sessuale. Ne è un esempio questo splendido passaggio:

 

«Quante e quante volte non avrebbe afferrato Leonardo con la sua mano sinistra, per essere mancino, la mano destra di Salai, suo pupillo, guidandola nel delineare un disegno, o nello scegliere una giusta tonalità. […] il maestro mostrava grande trasporto nel sentire tra le sue dita quelle dell’allievo, prima cedendo alla naturale debolezza, ma d’immediato disciplinandola in obbedienza all’autorità silenziosa cui non riusciva a sottrarsi. In tal modo si sigillava tra i due un nuovo patto d’amore, basato sulla consapevolezza dell’amante che dal servire l’amato procede la sua unica e incondizionata libertà» [CLÁUDIO, 2014: 51-52].

 

Quanto alla terza novella della trilogia, Il fotografo e la fanciulla, i cui protagonisti sono lo scrittore inglese Charles Lutwidge Dodgson e Alice Pleasance Liddell, la bambina che fortemente ispirò il personaggio di due suoi libri, firmati con lo pseudonimo di Lewis Carroll (3), ossia, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quello che Alice vi trovò. Due classici della letteratura per l’infanzia, talmente ricolmi di simbologie, nonsense e allusioni all’assurdo della vita che la loro dimensione oltrepassa e amplia quella della semplice fiaba, con le relative funzioni e “sequenze” proposte dal linguista e antropologo russo Vladimir Propp nel suo celebre saggio Morfologia della fiaba.

Oltre che scrittore, Charles Dodgson fu prete anglicano e professore di matematica all’Università di Oxford, e fu anche un appassionato cultore di teatro, letteratura e, soprattutto, fotografia. Si trovava più a suo agio con i bambini, e in particolare con le bambine (4), che, con il consenso dei genitori, amava disegnare e fotografare, a volte nude, divertendosi con loro nel fare scampagnate e passeggiate in barca sul Tamigi. Il serio professore e reverendo Dodgson si trasformava allora nel divertente Lewis Carroll, con la sua fervida capacità di inventare e improvvisare giochi scherzosi, storie e indovinelli. Questa passione per le ragazzine, e in particolare per Alice Liddell – la sua «amichetta ideale», come ebbe modo di definirla in una lettera che le inviò nel 1885, essendo lei già sposata e madre di tre figli [cfr. CARROLL, 1985: 244] – generò sospetti e teorie su una presunta sua pedofilia, dando luogo, dopo la sua morte, ad accesi dibattiti sul fatto se tale comportamento, tale ossessione per le adolescenti fosse innocente o morbosa.

Di certo non è un segreto che Dodgson, da amico quale era della famiglia di Henry George Liddell, Decano del Christ Church College dell’Università di Oxford, dal 1855 al 1891, apprezzasse la compagnia delle sue tre figlie Lorina, Alice ed Edith. Nel luglio del 1862, occorse la “leggendaria” gita in barca sul Tamigi, nel corso della quale Dodgson raccontò alle tre sorelle Liddell la storia fantastica di una bambina che era caduta nella tana di un coniglio. Al termine del racconto, la piccola Alice, che aveva allora dieci anni, estasiata dall’inventiva dell’amico di famiglia, gli chiese di trasporre la storia per iscritto. Nel novembre 1864, Dodgson completò una versione della storia cui diede il titolo di Le avventure di Alice sottoterra, per poi offrire il manoscritto ad Alice, probabilmente come regalo di Natale. Più tardi, avrebbe sviluppato il testo ai fini della pubblicazione, aggiungendo nuovi episodi. Il libro, arricchito dalle illustrazioni di Sir John Tenniel, avrebbe visto la luce nel 1865 con il titolo Alice nel paese delle meraviglie. Nel 1871, sarebbe uscito il seguito, Attraverso lo specchio e quello che Alice vi trovò. Nel frattempo, il rapporto tra lui e Alice era iniziato a incrinarsi, per ragioni molto controverse, con il coinvolgimento anche dell’intera famiglia Liddell. Del resto, è questo un argomento che i biografi di Dodgson continuano ancora a dibattere [cfr. LEACH, 2015: 267-279].

C’è da aggiungere come la questione sul ruolo e sul rapporto con l’Alice “letteraria” resti sospesa nel limbo del dubbio. Difatti, se da una parte, sia “sfogliando” la biografia di Dodgson/Carrol, a partire dall’episodio della “leggendaria” gita in barca sul Tamigi, sia leggendo i due libri, sembra indubbio che lì vi siano dei riferimenti alla Alice “reale”, dall’altra, lo stesso Charles Dodgson, non confondendo mai le due Alice, ha affermato che quella “letteraria” è appunto un personaggio nato dalla sua immaginazione. In altre parole, la “sua” Alice – «la mia bambina dei sogni», come la definisce nei suoi diari – avrebbe vissuto un’esistenza totalmente indipendente, condividendo con la Alice “reale” solo il nome di battesimo [cfr. IBIDEM: 287].

Quanto a Mário Cláudio, egli appoggia con forza la prima delle due tesi, insieme all’opinione che vuole Charles Dodgson sospettato di attrazione erotica per le adolescenti, in particolare per la piccola Alice, e struttura, con la sua consueta e grande maestria nell’evocare ed elaborare “storie” partendo da personaggi e fatti reali, questa specifica relazione tra un adulto e una bambina. Peraltro, riesce incredibilmente a riassumere tale storia in poche pagine, meno di ottanta, se si escludono le otto illustrazioni all’interno del libro, ma sempre in maniera esemplare, mai andando sopra le righe. Per così dire, senza scioccare o scandalizzare, Mário Cláudio non si sottrae a riferire, per il tramite delle attitudini di entrambi i protagonisti, ammiccamenti e provocazioni, seppur sfumati, erotico-sessuali.

 

Note

(1) José Saramago e António Lobo Antunes, solo per citare due altre grandi figure della narrativa portoghese contemporanea, sono autori di un’unica trilogia. António Lobo Antunes della cosiddetta «Trilogia di Benfica», che include i romanzi, pubblicati tra il 1990 e il 1994, Trattato delle passioni dell’anima, L’ordine naturale delle cose e La morte di Carlos Gardel, usciti in Italia per la Feltrinelli e tutti ambientati nel popolare quartiere di Lisbona dove lo stesso Lobo Antunes ha trascorso la sua giovinezza. Quanto a José Saramago, è autore della «Trilogia involontaria», come da lui stesso definita. «Involontaria» poiché «non pensata prima», ma che «anche non è diventata volontaria, nel senso di corrispondere a qualcosa di deliberato e pianificato». Sono affermazioni dello stesso Saramago, estrapolate da un’intervista concessa alla «Folha de S. Paulo» nel marzo 2004. In questa stessa intervista, riferendosi ai romanzi che compongono tale «Trilogia involontaria» – ossia, Cecità, Tutti i nomi e La caverna, pubblicati tra il 1995 e il 2000, e usciti in Italia per la Einaudi – Saramago ebbe modo di affermare: «C’è un nesso tra di essi, evidentemente, ma mi rifiuto di utilizzare termini quali trilogia, tetralogia o pentalogia…» [rip. in MACHADO, 2004].

(2) Ricordo come, cronologicamente, il primo romanzo che può definirsi “generazionale” sia I dolori del giovane Werter – un romanzo epistolare del 1774 di Johann Wolfgang von Goethe, formato da una serie di lettere scritte a un amico dal protagonista, il quale nutre un rifiuto talmente profondo per la società borghese, vista come oppressione costante delle sue energie creative, da scegliere il suicidio. I successivi romanzi generazionali più significativi sono: Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1802) di Ugo Foscolo, La confessione di un figlio del secolo (1836) di Alfred de Musset, Un eroe del nostro tempo (1840) di Mikhail Lermontov e, già con riferimento alla letteratura contemporanea, Il sogno di una cosa (1949) di Pier Paolo Pasolini, Il giovane Holden (1951) di J. David Salinger e il più recente Sunset Park (2010) del noto scrittore postmodernista americano Paul Auster. Quanto al Portogallo, sono del parere che si possa parlare solo di “echi” di “romanzo generazionale” con riferimento agli scrittori più rappresentativi sia del tardo-modernismo che del post-modernismo. Al contrario, questo sottogenere di romanzo lo si ritrova marcatamente presente – e non poteva essere altrimenti, pensandoci bene – nella “letteratura per l’infanzia”, e più specificatamente nei cosiddetti “romanzi sull’adolescenza”, in cui emergono più che altro scrittrici, e non scrittori, in maggioranza tutte nate negli anni ’50, quali Maria Teresa Maia Gonzales, Ana Meireles e Ana Saldanha.

(3) Lo pseudonimo Lews Carroll apparve per la prima volta nel 1856, in occasione della pubblicazione nel periodico «The Train» di un piccolo poema di Dodgson, dal titolo Solitude.

(4) È questa l’opinione della maggioranza dei carrolliani. È il caso, ad esempio, di Martin Gardner – il noto matematico, illusionista e divulgatore scientifico americano, autore della celebre edizione The Annotated Alice – che afferma: «[Charles Dodgson] professava un grande orrore dei bambini maschi, e più avanti nella vita li evitò il più possibile» [GARDNER, 2019: 15]. Tesi respinta, alla stregua di molte altre tesi che girano intorno al “mito” di Lewis Carroll, da Karoline Leach, che ha pubblicato su di lui, partendo soprattutto dalle pagine inedite dei diari di Charles Dodgson, originariamente occultate dai suoi famigliari, una rivoluzionaria biografia (The Shadow of The Dreamchild, 2009): «Non ci vuole molto per capire che colui che emerge da quelle lettere e da quei diari non è Carroll. Non ha l’aria di un uomo che “non ha una vita”, né di un recluso dedito alla castità che disprezza i ragazzini ed è ossessionato dalle bimbe, incapace di inserirsi in un mondo di adulti. Di fatto, nulla pare suggerire che odiasse i bambini e gli uomini. Nel corso della sua vita ha avuto molte amicizie importanti con adulti e ragazzi, sebbene la sua compagnia prediletta fosse, com’è ovvio, quella femminile. I pochi commenti del tipo “mi piacciono i bambini ma non quelli maschi” sembrano volontarie boutade estrapolate fuori contesto da una posterità con un’idea quanto meno rudimentale del senso dell’umorismo» [LEACH, 2015: 10].

 

Bibliografia di riferimento

– CARROLL, Lewis, 1985. Cara Alice… Lettere di Charles Lutwidge Dodgson (titolo originale: The Letters of Lewis Carroll, 1979). Edizione italiana a cura di Masolino D’Amico Einaudi, Torino.

– CLÁUDIO, Mário, 2008. Boa Noite, Senhor Soares. Publicações Dom Quixote, Lisboa.

– CLÁUDIO, Mário, 2014. Retrato de Rapaz. Publicações Dom Quixote, Alfragide.

– CLÁUDIO, Mário, 20151 (1a ed.: 2009). Buona notte, signor Soares. A cura di Brunello Natale De Cusatis. Morlacchi Editore, Perugia.

– CLÁUDIO, Mário, 20152. O Fotógrafo e a Rapariga. Publicações Dom Quixote, Alfragide.

– DE CUSATIS, Brunello Natale, 2015. Boa Noite, Senhor Soares e a exemplaridade marioclaudiana em evocar e elaborar “histórias”. In LUÍS, Carla Sofia Gomes Xavier et al. [organizadores], 2015. Cit.: 93-102.

– GARDNER, Martin, 2019 (1a ed.: 2015). Introduzione a “The Annotated Alice”. In CARROLL, Lewis, 2019. Alice nel Paese delle Meraviglie. Attraverso lo specchio e quello che Alice vi trovò (titolo originale: The Annotaded Alice: The Definitive Edition, 1999). Edizione annotata a cura di Martin Gardner, traduzione di Masolino D’Amico, illustrazioni di Sir John Tenniel. BUR deluxe, Milano: 11-20.

– LEACH, Karoline, 2015. Lewis Carroll. La vera storia del papà di Alice (titolo originale: In The Shadow of The Dreamchild, 2009). Traduzione dall’inglese di Simone Buttazzi. Castelvecchi, Roma.

– LUÍS, Carla Sofia Gomes Xavier e LUÍS, Alexandre António da Costa, 2018. Mário Cláudio: O Nascimento de um Escritor. In LUÍS, Carla Sofia Gomes Xavier et al. [organizadores], 2018. Vida e Obra de Mário Cláudio. Fundação Eng. António de Almeida e Universidade da Beira Interior, Porto/Covilhã [Carla Sofia Gomes Xavier Luís, Alexandre António da Costa Luís e Miguel Real (lusosofia.net)]: 113-141.

– LUÍS, Carla Sofia Gomes Xavier et al. [organizadores], 2015. Mario Cláudio e a Portugalidade. Ediçoes Fénix, Lisboa.

– MACHADO, Cassiano Elex, (22 marzo) 2004. José Saramago combate “cegueira” com votos em branco. In «Folha de São Paulo».

– NARDINI, Bruno, 2018 (1a ed.: 2004). Vita di Leonardo. Giunti Editori, Firenze/Milano.

– PEDRETTI, Leonardo [e] CIANCHI, Marco, 1995. Leonardo. I codici. Giunti Editore, Firenze/Milano.

– RITA, Anabela et al., 2015. Entrevista a Mário Cláudio. In LUÍS, Carla Sofia Gomes Xavier et al. [organizadores], 2015. Cit: 25-35.

– SETTIMINI, Marco, (16 giugno) 2019. Leonardo in Brianza: storia della “Dama con l’ermellino” e dell’enigmatico “Salaì”, bello e furfante, l’allievo prediletto che fu modello per la “Gioconda”. In «Pangea. Rivista avventuriera di cultura & idee» [http://www.pangea.news/leonardo-da-vinci-storia-di-Salaì-e-brianza/].

 

[La prima versione di questo articolo è stata pubblicata in portoghese (con il titolo Diversidade e confronto de gerações na obra de ficção marioclaudiana: “Boa noite, senhor Soares”, “Retrato de Rapaz” e “O Fotógrafo e a Rapariga”) nel volume collettaneo: Trilogia do Belo. Encontro de Filosofia e Literatura nos 50 Anos de Vida Literária de Mário Cláudio. Organização [de] Maria Celeste Natário e José Vieira. D. Quixote, Alfragide 2020, pp. 45-59.

Tutte le traduzioni dal portoghese delle citazioni sono a mia cura].

 

 

 

 

 

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