Dopo la Piombino di Acciaio e le valli del Biellese di Marina Bellezza, l’ultimo romanzo di Silvia Avallone Da dove la vita è perfetta (Rizzoli) sceglie come sfondo la spettrale periferia di Bologna, ma anche le piazze, i portici, le eleganti vie del centro città, la più antica università d’Europa e lo storico liceo “Galvani”. Mai tentata, anche nelle precedenti prove letterarie, da suggestioni postmoderne, Silvia Avallone si inserisce nel solco del racconto realistico come «strumento di analisi della società presente, della vita interiore, del mondo materiale» (Donnarumma). Quel verso ripreso dalla Sacred Emily di Gertrude Stein, “Una rosa, è una rosa, è una rosa”, è, infatti, una dichiarazione programmatica di poetica realistica. Non si può travisare il valore della parola che nomando le cose coincide con esse.
Se la struttura prismatica e ben congegnata del romanzo strizza l’occhio alla grande narrativa americana (Haruf, Franzen, Ellroy), l’analisi acuta delle plaghe oscure della psiche dei personaggi è un debito d’omaggio alla immensa tradizione idealista e mistico-spiritualista di Dostoevskij e Bulgakov. Scorre in filigrana nel testo L’educazione sentimentale di Flaubert.
“Da dove la vita è perfetta” interseca i destini di uomini, donne e adolescenti che si sfiorano procedendo tra inciampi, sofferenze e riscatti. “Bolofeccia” versus ” Bolobene” sono le due rivisitate categorie sociali che contraddistinguono la varia umanità di questo romanzo. Dora, la docente di italiano di Zeno, incrocia Adele mentre “sfreccia sulle sue zeppe”, Serena, la migliore amica di Dora, è l’angelo custode che salva l’anima perduta di Manuel. Fabio ha scelto, per masochistico eroismo, di sposare la problematica Dora, a cui manca una gamba e un utero fertile, ma fantastica su Emma, l’«oca» del liceo biologicamente prolifica. E poi i genitori fallimentari di Adele e Jessica, Adriano, bello come un attore da fotoromanzo, e Rosaria che colma i vuoti della sua squallida esistenza dialogando con Barbara D’Urso. Su tutti campeggia Zeno che, ostentando il privilegio della propria marginalità, osserva, novello Leopardi, la vita degli altri dalla finestra. Egli si impone di ricoprire, incapable de vivre, come il personaggio sveviano da cui eredità il nome, il ruolo che si era prefissato: quello del narratore onnisciente, che tira i fili del racconto senza giudicare. Ma la vita va vissuta, sempre e comunque. Perché se le idee di Platone stanno come “tante casecavalle appise” – affermava Antonio Labriola – “noi stiamo qui, dentro una storia” (323). Nel conflitto vecchio come il mondo tra ideale e reale, tra sogni e arido vero, le cose ci “costringono e determinano”. Essere abbarbicati alla realtà, questo è, in ultima analisi, l’insegnamento della scrittrice. I desideri, infatti, ci condizionano al punto che non ci accorgiamo che “Il paradiso è già qui solo che noi non riusciamo a vederlo”. Il romanzo riflette su temi cardine della letteratura universale quali il rapporto tra padri e figli, il parricidio, i demoni della colpa e la necessità di espiazione, il sentimento della maternità. Approfondisce, inoltre, problematiche molto attuali come l’adozione e la fecondazione assistita, lo spaesamento di chi abita nelle periferie, non luoghi frutto della speculazione edilizia italiana e simili tra loro ad ogni latitudine del nostro Bel Paese. Budelli sarebbe dovuto essere un quartiere avanguardistico ma l’avidità dei politici locali, l’incuria e il degrado – sostiene l’autrice – l’hanno trasformato in un “videogioco postatomico”. Eppure una possibilità di riscatto esiste per chi vive nei Lombriconi, due anonimi palazzoni grossi come due “lombrichi”, epicentro dell’immaginario Villaggio Labriola in cui è ambientata gran parte della storia. È la redenzione che come grazia divina si poggia sugli uomini che credono ancora nel valore assoluto della cultura umanistica e della letteratura.