Portare Ibrahimovic a Milano sarebbe stata solo una mossa commerciale per ravvivare, sui mercati esteri, il brand “Milan”. Non è un mistero né una bestemmia. Il pallone, ormai, è questo.
A 37 anni, Zlatan è stato accostato ai rossoneri come – fino a dieci, vent’anni fa – sarebbe stato accostato a qualche nobile piazza di provincia dove calciare le ultime raffiche di classe e talento. Eppure il pallone è cambiato così tanto che un calciatore (come disse Mou) è diventato una multinazionale. Muove interessi, un ingaggio spesso ha il sapore di un’alleanza commerciale più che di un rapporto sportivo.
Forse è stato meglio così. Higuain non è il rottame che ci restituiscono le cronache delle ultime partite. Certo, ha i suoi limiti. Ma se non li avesse, parliamoci chiaro, non giocherebbe in questo Milan. Cutrone è una speranza ma chi di speranza campa, disperato muore. Se giocherà, se avrà compagni e tecnici in grado di insegnargli (e bene) il mestiere, diventerà un crac. Altrimenti sarà l’ennesimo Bonaventura, un altro Montolivo: discontinuo col sapore di una promessa infranta.
Ma Zlatan non sarebbe stata la soluzione. Bensì avrebbe aggravato lo stato già grave di una squadra che è lontana anni luce dalle ambizioni che gli impone il suo stesso blasone. Ibrahimovic avrebbe dovuto giocare per far contenti i fans (non i tifosi) sparsi tra Asia, Africa e America. Avrebbe consentito (come ha fatto fino a domenica) di spargere inchiostro e vendere copie. Quanto vende, Ibra. Tanto quanto vendono i post su Instagram di Balotelli. Quanto non venderà mai tanto Quagliarella. Eppure il calcio è un’altra cosa e don Fabio continua a segnare, come un pazzo, a 36 anni…
Lo zingaro è strafinito…