Vi sono degli intellettuali di primo piano nel dibattito intellettuale che, a volte, vengono trascurati, dimenticati e lasciati in un angolo dalla critica. Tra essi va annoverato Daniel Halévy, che in Italia ha conseguito una certa notorietà per l’interessante biografia, Nietzsche (ultima ed. it., OAKS editrice 2019). Egli nacque in una illustre famiglia di intellettuali e studiosi: suo nonno Léon fu discepolo di Saint-Simon e conseguì fama letteraria come poeta; suo padre Ludovic fu commediografo e librettista di vaglia mentre, due suoi fratelli, si fecero valere negli studi storici e nella musica. Helévy frequentò, fin da giovane, uno dei principali salotti letterari di Parigi, munificentemente tenuto da Genèvieve Strauss, sua cugina. Qui conobbe Marcel Proust e Charles Peguy. Con quest’ultimo, intrattenne un lungo sodalizio, collaborando alle riviste che questi diresse. Inizialmente vicino ai «dreyfusardi», concorse a fondare, pur non avendo mai aderito al socialismo, il quotidiano «L’Humanité».
Venne in contatto con Georges Sorel, che da Halévy fu sollecitato a pubblicare le sue Riflessioni sulla violenza e, successivamente, con il gruppo di pensatori italiani che, affiancando Prezzolini, stavano dando vita a «La Voce». La sua visione del mondo subì una virata a «destra», come dimostrano le collaborazioni a svariate testate vicine all’«Action Française», sulle quali gli scritti del nostro autore comparvero fino alla termine del Secondo conflitto mondiale. Nel 1952 guidò il movimento che si batteva per la revisione del processo intentato contro Maurras per collaborazionismo che, allo scrittore francese, era costato la condanna all’ergastolo. Da questi sommari dati biografici si comprende, con chiarezza, per quali ragioni le sue opere siano state silenziate dalla critica. Egli di fatto fu considerato un «imperdonabile». Fortunatamente è da poco a disposizione dei lettori un’opera capitale, peraltro di stringente attualità, di Halévy. Ci riferiamo a L’accelerazione della storia, nelle librerie per i tipi della OAKS editrice, per la cura di Francesco Ingravalle e Tiziana C. Carena ( per ordini: info@oakseditrice.it, pp.172, euro 15,00).
Il volume è strutturato in tre parti: ciclo antico, ciclo moderno, Leibniz e l’Europa, capitolo che, a giudizio di scrive, è riassuntivo delle tesi storiografiche di Halévy ed è una gemma esegetica in merito al ruolo svolto dal filosofo tedesco (o meglio che avrebbe potuto svolgere) nel frangente storico nel quale si trovò a vivere. Nelle pagine del libro l’autore è mosso, come ricordano i curatori nell’informata Introduzione, dal tentativo di giungere ad un’esegesi compiuta di un tratto peculiare della storia; la sua accelerazione: «il mutamento dell’andatura del tempo, del ritmo del tempo» (p. 7). Gli strumenti, dei quali si avvale Halévy, sono desunti dalle categorie cristiano-cattoliche e, per questo, il suo tentativo interpretativo è parallelo a quello messo in atto dai filosofi Francofortesi. Per questi ultimi, la perdita: «dello spirito critico illuminista ha snaturato il progresso […] esaltando un elemento in esso presente, ma estraneo, […] fideistico, mitologico» (p. 9). Per Halévy l’accelerazione della storia è una componente intrinseca al progresso, che lo spirito dovrebbe riuscire a controllare, al fine di evitare le catastrofi di qui la modernità è, di fatto, intessuta.
Tel intenzione è, nel pieno dispiegarsi della post-modernità, quanto mai attuale, nonostante il volume sia stato scritto nel 1948. Jules Michelet nel 1872 aveva già rilevato come la storia avesse oramai perduto la sua stabilità. Dopo la Grande rivoluzione del 1789, l’Europa, periodicamente, aveva visto il riemergere di sussulti sovversivi. Simmel, nel 1903, notava con persuasività argomentativa che: «la base psicologica su cui si erge il tipo delle individualità metropolitane è l’intensificazione del tempo» (p. 13). La metropoli era anche per Spengler il luogo del «Tramonto dell’Occidente», del pieno manifestarsi della «civilizzazione» quantitativa, che andava soppiantando la «civiltà» volta all’alto. In tale processo regressivo un ruolo di primo piano era stato svolto dal denaro, astratta quantità con la quale era possibile scambiare ogni merce. Da allora il tempo venne esperito come misura, come numerabile. E’ quindi il capitalismo finanziario, in tale ottica esegetica, a determinare l’accelerazione della storia attraverso il sostegno concesso alla tecnica, insieme di mezzi atti a ridurre il tempo produttivo. Il soggetto umano è ridotto a mera passività: risponde esclusivamente agli stimoli: «sempre più rapidi dell’apparato produttivo […] e la sua vita diventa una corsa dietro simboli della vita (le merci)» (p. 15), che non riescono a soddisfarlo, a persuaderlo. La sua socialità è, pertanto, legata a una paradossale circolarità del tempo, ad un eterno presente svuotato di senso, che rinvia a produzione e consumo, quali sue uniche polarità costitutive.
Tale accelerazione senza freno dei ritmi temporali era sovrastata, nel momento in cui l’autore scrisse queste pagine, dalla possibile ecatombe nucleare. Ciò indicava che la macchina del Gesell, dell’Impianto della tecno-scienza, era ormai senza controllo: «la sproporzione fra quello che l’uomo è e l’energia liberata a Hiroshima e Nagasaki è […] per Halévy, la ‘cifra’ della Modernità» (p. 23). Una modernità faustianamente aperta sull’infinito e la dismisura di cui, per primi, si fecero interpreti gli Stati-potenza, gli Sati nazionali «Leviatani», non più cateconticamente raffrenati dall’Impero sovranazionale, ma libere espressioni politiche della volontà di conquista. Se il luogo per eccellenza dell’accelerazione della storia è stata la Francia, almeno a partire dal 1789, tale metamorfosi dei ritmi temporali ha avuto una lunga incubazione, e si è manifestata sin dal mondo antico. L’idea di progresso è del resto, consustanziale, alla teologia della storia cristiana che, immanentizzatasi nelle filosofie della storia, ha prodotto il mito del «Mondo Nuovo».
Halévy ci invita a guardare alla storia umana come «totalità», al fine di poter riacquisire il controllo sul tempo. I due curatori ritengono che attualmente si stiano verificando le condizioni per giungere alla «scienza unificata», già nelle corde della proposta neo-positivista di Otto Neurath, atta ad orientare politica ed amministrazione nelle scelte epocali alle quali sono chiamate. Chi scrive ritiene che il controllo del tempo possa essere conquistato soltanto attraverso la ri-scoperta della dimensione cosmica, dei ritmi eterni della physis, che soli possono indurre scelte centrate sul limite e non sull’infinita dismisura. Più che al positivismo, nelle sue diverse declinazioni, è necessario guardare al pensiero di tradizione e al naturalismo scettico di Karl Löwith. A questa condizione, sarà forse possibile realizzare ciò che per Leibniz restò un sogno, l’Impero d’Europa. Con le parole di Halévy: «Dopo Leibniz, niente fiorisce. Il nostro grande medievale attardato resta senza clientela» (p. 169).